L’eggregore

Maestro Venerabile, Primo e Secondo Sorvegliante, Maestri, Compagni, Apprendisti, Fratelli: mi accingo per la prima volta a presentare presso questa rispettabile Loggia, la mia prima tavola su un argomento complesso e delicato come le Eggregore. Chiedo fin d’ora venia e comprensione per le imprecisioni ed eventuali errori che si potranno riscontrare durante la mia esposizione, consapevole in ogni caso del fatto che molto ancora ho da apprendere ed imparare, ma nel contempo certo del Vostro autorevole supporto per lavorare quella pietra grezza che un giorno spero e desidero, possa diventare testata d’angolo.

Un piccolo cenno sull’origine del termine eggregora.

Il termine eggregore, eggregora, forma-pensiero, è una parola che nel vocabolario di lingua italiana non esiste: essa deriva specificatamente dal greco antico ἐγρήγορος il cui significato originario sta per “guardiano”.

Tale termine assume connotazioni diverse a seconda dell’ambito in cui viene considerato: nell’occultismo ad esempio, essa sta ad indicare una entità priva di corpo fisico e quindi di materia, che viene generata da uno o più soggetti, la quale risulta poi in grado di influenzare in modo più o meno accentuato i loro stessi pensieri, attitudini, modi di agire. Quando essa, l’eggregora, viene generata mediante particolari metodi di meditazione e/o rituali allora viene definita più specificatamente con il termine di eggregora o egregore; quando invece tale eggregora viene generata, determinata, in modo inconsapevole, involontario e soprattutto da pensieri ossessivi, allora viene definita in modo più specifico come forma-pensiero: in questo secondo caso ci si trova ad operare soprattutto in ambito esoterico e la componente negativa di tali forme pensiero assume una chiara connotazione negativa per il soggetto tanto da diventare un parassita dello stesso soggetto che l’ha generata sottraendogli quindi, energia vitale.

L’equivalente latino di tale termine può essere associato alla parola egregius, che significa «notevole», «illustre», «eccezionale»; questa seconda derivazione è molto importante da sottolineare per i motivi che verrano specificati successivamente; basti solo pensare al fatto che dalla terminologia greca deriva il termine di “grigori” ovvero quegli angeli o demoni che, caduti sulla terra, generarono accoppiandosi con le donne terrestri, quella razza di giganti chiamati Nephilim: i giganti, esseri straordinari, eccezionali, notevoli. Ecco quindi come l’associazione della terminologia greco-latina a mio avviso abbia generato il suddetto termine di egregore (egregius – grigori). Concettualmente ci si rifà quindi a qualcosa di eccezionale, soprannaturale, mitologico e mitico, sovraumano.

Si deve tuttavia ad Eliphas Levi il concetto ermetico esoterico della parola egregore intesa invece come forma-pensiero collettiva, ovvero generata in seguito ad un pensiero collettivo opportunamente indirizzato da motivazioni di vario genere e natura (religiosa, iniziatica, esoterica ecc.); quest’ultima interpretazione è stata tuttavia ampiamente contestata da Renè Guenon che non vedeva alcunchè di spirituale in quella terminologia ma interpretando la fenomenologia della stessa come una semplice emanazione della psiche individuale in un ambito più propriamente collettivo. Egli riteneva infatti che l’eggregora può essere creata intenzionalmente al fine di indirizzare l’energia psichica, mediante rituali appositi: tuttavia tale operazione assumeva una connotazione degna di importanza solo se supportata da organizzazioni spirituali, religiose od iniziatiche aventi come obiettivo quello di apportare al gruppo qualità superiori che possano trascendere la sfera puramente materiale e fisica.

Pur avendo visioni opposte riguardo l’origine, la genesi della formazione dell’eggregora, è interessante notare come entrambe intuiscano che l’essere umano, vuoi singolarmente, vuoi in un contesto collettivo di partenza possa avere questa facoltà, questa capacità di poter generare un qualcosa di “immateriale” che lo connetta con una sfera superiore, con quelle “energie sottili”, che possono essere percepite al di là della comune esperienza sensoriale materiale.

E’ solo con Annie Besant e Charles Webster Leadbeater, principali esponenti del movimento teosofico, che a mio avviso la forma-pensiero viene più puramente intesa come una vera e propria vibrazione che, emanata per non dire prodotta dal singolo o da un collettivo di individui, finisce per diventare autonoma essa stessa, in una sorta di vita propria, che oltretutto continua per così dire ad “alimentarsi” degli stessi pensieri della/e persone che l’hanno generata! In tale modo è come se la forma pensiero una volta generata vivesse non solo di vita propria ma prendesse il sopravvento sopra il suo stesso “creatore” determinandone il suo proprio completo assoggettamento inducendo lo stesso ad una continua produzione di quei pensieri che sono indispensabili alla forma pensiero stessa per poter sopravvivere nel tempo.

Una cosa che mi ha sempre fatto meditare, durante i nostri lavori, guardando il tappeto di Loggia, è il fatto che esso rappresenta una summa di tutti quei simboli che rappresentano i nostri strumenti per raggiungere la perfezione dell’opera! Tra tutti questi simboli, sembra apparentemente che ne manchi uno: ciò è solo apparentemente vero dal momento che ciò che sembra mancare, in realtà, è ciò che a mio modestissimo parere, li comprende tutti, e questo è proprio l’Eggregora.

Ho individuato pertanto tre elementi fondamentali che durante ogni tornata, sono necessari per “creare” prima ed espandere poi tale eggregora: la presenza del Maestro/i, il rituale dei lavori di loggia, i simboli. Ciascuno di essi non può esistere di per sé ma oserei dire che è interdipendente dagli altri ovvero, esiste un intimo legame tra di essi, senza il quale l’eggregora stessa non potrebbe essere generata e di conseguenza la pietra grezza non potra’ mai diventare testata d’angolo.

Il Maestro/i, illuminato dal Grande Architetto dell’Universo, mediante l’esecuzione del rituale in loggia, attiva tutti quei simboli che, come una chiave in una serratura, sono in grado di aprire quel portale che ci consente di poterci connettere con quel mondo superiore, quel mondo soprasensibile, indispensabile per iniziare ad avviare l’opera di rinnovamento e di sgrossamento di quella pietra che dovrà diventare sempre più perfetta nelle sue forme per assolvere al suo perfetto compito.

Tale manifestazione eggregorica, è in grado di catalizzare e portare all’unisono tutti i fratelli, in una sorta di risonanza comune e perfetta, tale da avviare, anche inconsapevolmente, quel lavorio interiore che porta inevitabilmente a modificare nel tempo il nostro io, liberandolo da una forma egoistica ed egocentrica, ad una forma di coscienza collettiva.

L’ eggregora è quindi quel simbolo di loggia che potremmo definire immateriale ma che pur tuttavia ha la stessa equipollenza di tutti gli altri simboli necessari ed indispensabili durante i lavori di loggia stessi.

L’ eggregora inoltre, dobbiamo sottolineare, non è un qualcosa di esclusivo appannaggio di una particolare associazione, professione religiosa, gruppo; essa è insita, come una sorta di muro portante, in qualsivoglia forma di aggregazione umana che voglia anelare ad un livello di pensiero superiore: tanti riti e ritualità possono essere considerati, ma quello dove intravedo una particolare espressività della fenomenologia eggregorica, sono il rito Scozzese Rettificato (che sto lentamente imparando) ed i riti religiosi. Nel primo, soprattutto in maniera forse più evidente che nei secondi, si percepisce quella sequenzialità nella rivelazione e disvelazione delle formule che porta alla creazione dell’eggregora che con una modalità effettuativa magica, apre, attivando i simboli, il/i portale/i che consentono agli adepti un vero e proprio passaggio ad un’altra dimensione. Mi pongo quindi la domanda: noi siamo l’eggregora? Ovvero, l’eggregora è un momento di nostra trasformazione corporea?

Edgardo Marziani

Considerazioni sull’esame dei profani che bussano alle porte del Tempio

Uno dei temi su cui la Massoneria attuale ha le idee meno chiare è quello dell’esame dei candidati a essere ricevuti, o iniziati (i bussanti). Tanto per cominciare, chiariamo una questione terminologica: il termine “tegolatura” viene usato, nel caso dell’esame dei candidati, in modo improprio. La tegolatura è l’esame dei Fratelli visitatori, che dovrebbe avvenire in modo rituale, chiedendo le parole e i toccamenti del grado. Per svolgere tale compito in alcuni Riti (come lo Scozzese Antico e Accettato) esiste un’apposita figura: il Tegolatore. Per l’esame dei candidati, invece, il Maestro Venerabile nomina ogni volta dei Maestri (tra i quali non dovrebbe essere incluso il Fratello che propone il candidato), i quali non dovranno sapere l’identità l’uno dell’altro e dovranno esaminare il candidato in maniera automa e indipendente. I Maestri incaricati scriveranno poi una relazione anonima che sarà letta in Loggia onde permettere ai Fratelli di avere gli elementi necessari a decidere se votare a favore, o contro, l’ammissione del candidato. I nomi dei Fratelli esaminatori devono essere sconosciuti alla Loggia per garantire che il giudizio dei Fratelli non sia influenzato da eventuali simpatie, o antipatie, nei confronti degli esaminatori. Per lo stesso motivo gli esaminatori dovranno essere sconosciuti l’uno all’altro.

Per dare i giusti elementi ai Fratelli, affinché possano decidere come votare, gli esaminatori dovranno chiarire con il candidato alcuni punti fondamentali:

  • Gli impegni e gli obblighi che l’appartenenza alla Loggia comporta;
  • La struttura della Massoneria, l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia e un quadro generale sulle altre Obbedienze;
  • Lo scopo del percorso libero-muratorio;
  • L’infondatezza di certe voci e dicerie sulla Massoneria;
  • I valori fondamentali della Libera Muratoria, ai quali il candidato, una volta ricevuto (o iniziato) dovrà allinearsi;
  • Alcuni accenni al Rito particolare che la Loggia pratica.

Nel caso delle Logge di Rito Scozzese Rettificato, gli esaminatori avranno cura di sincerarsi della fede cristiana del candidato e del suo essere stato battezzato. Quale sia la confessione del candidato (cattolico romano, ortodosso, protestante…) è irrilevante ai fini del Ricevimento e, quindi, dell’esame.

Entriamo più nel dettaglio dei temi elencati sopra.

Prima di tutto l’esaminatore dovrà illustrare al candidato quali saranno i suoi impegni e i suoi obblighi nei confronti della Loggia, ovvero la partecipazione alle Tornate (chiarendo l’entità di questo impegno, in quale giorno si riunisce la Loggia, quanto durano le Tornate…) e il pagamento delle capitazioni, l’importo delle quali dovrà essere detto chiaramente. In questo modo si eviterà che il candidato abbia da ridire sui costi, o si lamenti dicendo che non sapeva di dover pagare, o quanto fosse impegnativa la partecipazione alle Tornate.

È di primaria importanza anche spiegare al candidato la struttura della Massoneria, l’eventuale appartenenza della Loggia a un’Obbedienza e l’organizzazione, a grandi linee, della stessa. È fondamentale spiegare che l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia non è l’unica esistente e chiarire quali caratteristiche la differenziano dalle altre. Mi è capitato un bussante che aveva chiesto di entrare in Loggia credendo che essa appartenesse al Grande Oriente d’Italia (che pensava fosse l’unica Obbedienza italiana). Ricevere questo candidato sarebbe stata una perdita di tempo da parte sua e nostra. Altri invece preferiscono Obbedienze miste (che accettano cioè sia uomini che donne) a quelle unicamente maschili o femminili. Sarà quindi necessario mettere in chiaro se l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia è mista o meno. Se il candidato esprimesse la necessità di entrare in un’Obbedienza con caratteristiche differenti da quella a cui appartiene la Loggia, sarà un atto di gentilezza da parte dell’esaminatore l’indicargli eventuali altre Obbedienze più adatte alle sue esigenze.  

Altro punto fondamentale è chiarire quale sia lo scopo del percorso libero-muratorio e quale sia il modo in cui la Massoneria lo persegue. Deve essere chiaro che la Libera Muratoria è un Ordine che dà ai suoi membri il modo di seguire un percorso di tipo spirituale, volto a perfezionare se stessi e l’Umanità attraverso un sistema di simboli e ritualità che procede per gradi. A tal proposito è strettamente necessario smentire le voci su presunti complotti massonici o sul fatto che l’appartenenza massonica apra le porte per far carriera o per la scalata sociale. Capita spesso che delle persone facciano richiesta di entrare in Loggia per questi motivi materiali. Costoro potrebbero, qualora fossero accettati, essere un pericolo per la salute della Loggia, essendo portatori di quei “metalli” che il Massone dovrebbe invece abbandonare prima di entrare nel Tempio. Allo stesso modo bisogna chiarire che nelle Logge non si trovano strani rituali magici per ingraziarsi chissà quale entità e indurla a farci guadagnare soldi o altri beni materiali, o “verità arcane” su alieni, illuminati o altre corbellerie. Per esperienza personale so che candidati convinti di trovare cose del genere capitano spesso. Uno mi disse che voleva far carriera e dopo che gli ebbi spiegato che in Massoneria non c’era modo di farla, ritirò la candidatura. Un altro era convinto che noi avessimo “poteri” magici e che potessimo insegnargli incantesimi per vincere alla lotteria. Ci vuole quindi molta chiarezza e molta prudenza nell’esaminare i candidati.

Passiamo ora a una questione oggi molto sottovalutata e che spesso genera discussioni: i valori fondamentali che informano di sé tutta la Libera Muratoria, anche se non tutti i Riti li dichiarano palesemente nella ritualità.

Differentemente da quanto molti Massoni oggi credono, la Massoneria non è un contenitore neutro dentro cui ognuno può mettere i suoi propri valori e il suo proprio pensiero. Tale idea è stata generata da un mal digerito discorso sulla “libertà di pensiero” intesa come un semplicistico e qualunquista “penso e dico quel che mi pare”. La Massoneria da sempre propugna la libertà di pensiero, la tolleranza e il rispetto per l’altro. Ma, paradossalmente, tale libertà e tolleranza non posso esistere senza che si pongano dei limiti ben precisi, pena il permettere che i più prepotenti impongano a tutti la loro propria volontà, di fatto ponendo fine sia alla libertà che alla tolleranza. Ma dove porre il confine di ciò che è lecito? Il limite alla tolleranza è l’intolleranza: il pensiero intollerante non può essere accettato all’interno della Massoneria, essendo esso massimamente contrario ai suoi valori fondamentali. Al candidato dovrà essere ben spiegato che la Massoneria considera le persone come libere, eguali e come unite da un legame di fratellanza che va oltre la stessa Libera Muratoria. In questo consiste l’universalità della Massoneria. Come potrebbe un razzista abbracciare come suo Fratello un uomo appartenente a un’etnia che egli ritiene “inferiore”, o addirittura “malvagia”?

Idee e comportamenti intolleranti non possono essere accettati in Loggia e il Maestro esaminatore dovrà farlo capire molto chiaramente al candidato. Dentro il limite, poi, del reciproco rispetto e della reciproca tolleranza, sarà possibile la libertà di pensiero necessaria al percorso massonico.

Su questo punto mi si permetta di porre in evidenza un errore che molte Logge fanno, ovvero quello di non accettare delle persone perché troppo “diverse” dai Fratelli che compongono la Loggia. Si formano così, in nome di un mal inteso senso di “armonia”, Logge di Fratelli tutti simili fra loro per classe sociale, livello e formazione culturale, perfino per professione e idee politiche. Questo è quanto di più sbagliato: il percorso massonico ha nel confronto con l’altro, con visioni diverse dalla propria, uno dei maggiori strumenti di perfezionamento. Anche, e forse soprattutto, il confronto con chi ci pone davanti a cose che ci danno fastidio o che mettono a nudo i nostri limiti e difetti è fondamentale. Del resto lo sgrossamento della pietra grezza, che è simbolo del lavoro massonico, non è qualcosa che si faccia con delicatezza, ma con forza e fatica. Accettare solo candidati simili ai Fratelli significa privarli di un utilissimo strumento e rendere meno efficace il lavoro di Loggia. L’esaminatore dovrà, quindi, da una parte, tener ben presenti i valori fondamentali e i limiti da essi posti, ma dovrà anche, dall’altra, stare attento a non farsi influenzare dalle proprie idee particolari e dai propri pregiudizi, restando il più possibile “obiettivo”. Anche per questo il ruolo di esaminatore è riservato ai Maestri i quali, si presume, dovrebbero avere la necessaria conoscenza ed esperienza per esaminare nel giusto modo il candidato. Il fatto, poi, che gli esaminatori debbano essere più di uno (solitamente tre) e indipendenti permette di garantire che le eventuali sviste dell’uno siano compensate dall’altro.

Infine, l’esaminatore dovrà spiegare a grandi linee le caratteristiche del Rito che la Loggia pratica. Ogni Rito ha una sua propria “anima” e un carattere che lo contraddistingue. Bisognerà quindi capire se il candidato sia in cerca di ciò che il Rito della Loggia può dargli, o se cerca qualcosa di diverso. Molte Obbedienze hanno Logge di diversi Riti e il candidato potrebbe essere indirizzato verso una Loggia che pratichi un Rito più adatto alle sue esigenze. Soprattutto Riti (come il Memphis e Misraïm, o lo Scozzese Rettificato) connotati da un approccio più esoterico e spirituale possono non essere adatti a tutti. L’esaminatore spiegherà quindi al candidato le caratteristiche del Rito e, in termini generali, i suoi contenuti e in base alla risposta lo indirizzerà nel migliore dei modi. Capita a volte che l’esaminatore cerchi di convincere il candidato a entrare nella sua Loggia anche quando questo non si presenta come adatto al tipo di ritualità e all’approccio proprio di quel Rito particolare, o quando il candidato desidererebbe entrare in un’Obbedienza di diverso tipo. Questo è un errore da evitare accuratamente, anche se la Loggia avesse bisogno di aumentare il numero dei suoi componenti. Far entrare in Loggia una persona non adatta non porta nulla di buono. Questa persona con tutta probabilità se ne andrà presto, o, nel peggiore dei casi, creerà disarmonia o porterà negatività (come capita quando si introducono carrieristi e arrivisti).

Concludo esprimendo la speranza che questa tavola possa essere utile ai Fratelli incaricati di esaminare i candidati. Gli argomenti sono stati trattati solo per sommi capi e potrebbero sicuramente essere ampliati. Credo però che i Maestri sapranno utilizzare quanto scritto declinandolo secondo le loro proprie esperienza e sensibilità.

Enrico Proserpio

La Parola del secondo grado nel Rito Scozzese Rettificato

Davanti al Tempio di Salomone, a lato dell’ingresso d’Occidente, il re Salomone fece erigere due Colonne di bronzo dal forte senso simbolico. Così dice Ruggiero Di Castiglione:

La colonna di destra (Jakin) evoca, infatti, l’idea di «solidità»; mentre quella di sinistra (Boaz), l’idea di «forza». L’unione dei due nomi indica «stabilità».[1]

La storia della costruzione del Tempio e delle Colonne è narrata nella Bibbia, precisamente nel primo libro dei Re[2]:

Fuse due colonne di bronzo, ognuna alta diciotto cubiti e dodici di circonferenza. Fece due capitelli, fusi di bronzo, da collocarsi sulla cima delle colonne; l’uno e l’altro erano alti cinque cubiti.

Fece due reticoli per coprire i capitelli che erano sopra le colonne, un reticolato per un capitello e un reticolato per l’altro capitello. Fece melagrane su due file intorno al reticolato per coprire i capitelli sopra le colonne; allo stesso modo fece per il secondo capitello. I capitelli sopra le colonne erano a forma di giglio. C’erano capitelli sopra le colonne, applicati alla sporgenza che era al di là del reticolato; essi contenevano duecento melagrane in fila intorno a ogni capitello. Eresse le colonne nel vestibolo del tempio. Eresse la colonna di destra, che chiamò Iachin ed eresse la colonna di sinistra, che chiamò Boaz. Così fu terminato il lavoro delle colonne.[3]

Qui ci occuperemo del significato della Colonna Boaz e del suo nome, il quale è anche la Parola del grado di Compagno[4].

Come si diceva, Boaz (o Booz) significa “forza” o “in forza”. Essa rappresenta una delle virtù necessarie alla pratica iniziatica. In questo grado, però, la forza non appartiene ancora all’Iniziato, ma risiede nella Colonna, nel Tempio. Il Compagno, quindi, si deve appoggiare, per il suo lavoro, alla Loggia e all’Ordine e non ha ancora gli strumenti necessari a camminare da solo. A riprova di ciò ricordiamo che nel Rito Scozzese Rettificato ogni grado corrisponde a una delle sette virtù. La Fortezza, a cui la Parola del secondo grado sembra collegarsi, è la virtù del quarto grado (Maestro Scozzese di Sant’Andrea), ultimo dei gradi strettamente massonici di tale Rito. Il Fratello che abbia raggiunto quel grado ha tutti gli strumenti necessari per muoversi autonomamente e indipendentemente sul piano dei Piccoli Misteri, avendo completato la parte muratoria del percorso connesso alle quattro Virtù Cardinali. Da queste basi potrà partire per ascendere verso la realizzazione dei Grandi Misteri.

La Fortezza è messa come ultima delle Virtù Cardinali da realizzare in sé perché essa necessita delle altre per poter agire nel modo corretto. Senza la guida delle altre tre (Giustizia, Temperanza, Prudenza) la Fortezza rischia di divenire forza bruta, violenta, trasformandosi da Virtù in vizio. Il Compagno ha come Virtù la Temperanza: egli, accudito e aiutato dalla forza della Loggia e della Massoneria tutta, dovrà imparare a placare le passioni, a incanalarle in modo costruttivo, a trovare quel “giusto mezzo” tra gli opposti che diviene sintesi tra gli stessi.

C’è però un altro aspetto da considerare, che è tipico del Rito Scozzese Rettificato e di lui solo (in ambito massonico). Ai significati della Parola del secondo grado Martinez de Pasqually aggiunge un significato ulteriore, attribuendola, come nome proprio, a uno dei figli di Caino. Prima di addentrarci nel racconto martinezista segnalo che anche nella Bibbia c’è un personaggio di nome Boaz (o Booz). Si tratta di un antenato del Re Davide (e quindi di Gesù di Nazareth). Lo incontriamo nel Libro di Rut, dove si narra la storia della moabita Rut, vedova di un uomo ebreo che si era trasferito nel regno di Moab, che alla morte del marito decide di seguire la suocera, Noemi, e vivere in Israele. Giunta lì, mentre spigola, Rut incontra Booz, suo futuro marito:

Noemi aveva un parente del marito, uomo potente e ricco della famiglia di Elimèlech, che si chiamava Booz. Rut, la Moabita, disse a Noemi: «Lasciami andare per la campagna a spigolare dietro a qualcuno agli occhi del quale avrò trovato grazia». Le rispose: «Va’, figlia mia». Rut andò e si mise a spigolare nella campagna dietro ai mietitori; per caso si trovò nella parte della campagna appartenente a Booz, che era della famiglia di Elimèlech. Ed ecco Booz arrivò da Betlemme e disse ai mietitori: «Il Signore sia con voi!». Quelli gli risposero: «Il Signore ti benedica!». Booz disse al suo servo, incaricato di sorvegliare i mietitori: «Di chi è questa giovane?». Il servo incaricato di sorvegliare i mietitori rispose: «È una giovane Moabita, quella che è tornata con Noemi dalla campagna di Moab. Ha detto: Vorrei spigolare e raccogliere dietro ai mietitori. È venuta ed è rimasta in piedi da stamattina fino ad ora; solo in questo momento si è un poco seduta nella casa».[5]

Torniamo al Martinez de Pasqually. Per l’autore settecentesco “Boaz” è il nome del decimo figlio di Caino:

Caino era un grand’uomo di caccia, egli aveva ugualmente allevato tutti i suoi figli maschi alla caccia, e soprattutto il suo decimo figlio sul quale aveva posto tutto il suo attaccamento. Egli non diede a questo suo figlio altro talento che quello della caccia, essendo gli altri suoi figli più portati ai lavori d’immaginazione ed alle opere manuali. Caino diede a questo decimo figlio il nome di Boaz, o Booz, che vuol dire figlio d’uccisione.[6]

Il significato dato dal Martinez de Pasqually al nome Boaz non trova riscontro nella tradizione massonica che non sia di Rito Scozzese Rettificato. Inoltre, questo figlio di Caino non compare nelle Scritture, essendo Enoch l’unico figlio citato[7]. Questo, però, non cambia la profondità e il valore dottrinale delle tesi martineziste, che provengono da un filone iniziatico di grande spessore. Cerchiamo quindi di analizzare la cosa alla luce delle dottrine di tale filone.

Booz è il decimo figlio di Caino. Il dieci è numero divino, che indica il compimento della via. Il decimo figlio, quindi, è il compimento del destino e del tipo di Caino, ovvero il compimento della prevaricazione e della distruzione. Non a caso è lui a causare la fine di suo padre.

Sia Booz che Caino decidono di fare una battuta di caccia, l’uno all’insaputa dell’altro, nello stesso luogo:

Essi partirono dunque insieme per andare a caccia, ma Booz, senza saperlo, prese la stessa strada di suo padre Caino e, essendo tutti e due in un macchione che erano abituati a battere, Booz scorse l’ombra di una figura attraverso questo macchione chiamato Onam, che vuol dire dolore. Booz spiccò allora una freccia che andò a penetrare il cuore di suo padre, avendolo preso per una bestia feroce. Giudicate della sorpresa e del fremito di Booz, allorché fu sul posto dove aveva tirato il suo colpo di freccia e vide suo padre ucciso dalla sua propria mano. Il dolore di Booz fu tanto più grande in quanto sapeva la punizione e la minaccia che il Creatore aveva lanciato contro colui che avesse colpito la persona di Caino[8]. Sapeva che colui che avesse avuto questa sventura sarebbe stato colpito sette volte da pena mortale, o sarebbe stato punito sette volte di morte.[9]

Questi fatti hanno un’importanza particolare essendo essi del tipo della profezia:

Ciò che forma realmente il tipo di profezia, è che l’incontro delle due persone, Caino e Booz, non è premeditato e che l’uno e l’altro si sono trovati senza sapere, nel luogo in cui Caino ricevette il colpo mortale.[10]

Il più profondo valore simbolico del racconto martinezista è comprensibile solo alla luce del terzo grado e non lo affronteremo qui.

Mi limiterò a indicare nella figura di Booz il rischio che l’Iniziato corre nel suo lavoro. Se egli non resterà sulla retta via dello spirito, indulgendo nei vizi e lasciandosi dominare dalle passioni, non potrà che finire con l’incarnare il tipo del prevaricatore e lavorare alla sua stessa fine. Ricordiamo il discorso fatto in precedenza sulla Forza (o Fortezza) e il suo utilizzo. Booz è colui che usa la forza senza essere guidato dalle Virtù. In lui agiscono le passioni dell’intelletto demoniaco, le voci degli spiriti perversi che si sono resi colpevoli della prima prevaricazione. Non a caso egli è l’unico figlio ad avere il solo talento della caccia, espresso alla massima potenza, ovvero un talento violento e distruttivo. Egli lo usa in modo cieco, inconsapevole, e questo porta all’omicidio di suo padre. Se, infatti, agiamo senza consapevolezza, data dalla pratica delle Virtù e dal costante lavoro iniziatico, non possiamo prevedere le conseguenze e imboccheremo la strada contro-iniziatica che porta verso il basso, verso i vizi. In tal senso l’uccisione del padre rappresenta il distacco dallo Spirito, la colpa primordiale, o peccato originale, che ha gettato l’Uomo in questo mondo di materia, dove non gli è più dato di vedere Dio. Il compito dell’Iniziato è quello di sfuggire ai cicli distruttivi dell’intelletto demoniaco per ascendere e giungere alla Reintegrazione. Il Compagno in particolare deve lavorare facendo affidamento sulla Forza della Loggia e della Massoneria, ben meditando i simboli del suo grado e il loro senso, e tenendo sempre presente l’esempio di Booz, figlio di Caino, affinché gli sia di monito.

Enrico Proserpio

[1] Ruggiero Di Castiglione, Alle sorgenti della Massoneria, editrice Atanòr, 1988, pagina 155.

[2] Della costruzione del Tempio di Salomone si parla anche nel Primo Libro delle Cronache, capitolo 22, e nel Secondo Libro delle Cronache, capitolo 3.

[3] Primo Libro dei Re, capitolo 5, versetti 15 – 22, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Non in tutti i Riti Boaz è Parola Sacra del secondo grado. In altri Riti (RSAA, Emulation…) essa è Parola Sacra del primo grado. In questa Tavola si segue la simbologia del Rito Scozzese Rettificato.

[5] Libro di Rut, capitolo 2, versetti 1 – 7, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 99.

[7] Se ne parla in Genesi, capitolo 4, versi 17 – 18.

[8] Si veda Genesi, capitolo 4.

[9] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 100.

[10] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 101.

Il significato della colonna spezzata e della scritta “adhuc stat”

Il quadro con la colonna spezzata e la scritta “adhuc stat”.

Nelle Logge di Rito Scozzese Rettificato, in grado d’Apprendista, si trova un quadro con l’immagine di una colonna spezzata, eretta sulla sua base, con la scritta “adhuc stat”, che potremmo tradurre con “ancora in piedi”.

Quest’immagine è una delle più emblematiche di tale Rito e vale dunque la pena di comprenderne meglio i significati.

Il Rito Scozzese Rettificato deriva dalla Stretta Osservanza Templare, la quale si riproponeva la ricostituzione dell’Ordine del Tempio. Nella Stretta Osservanza quest’immagine rappresentava proprio l’Ordine Templare, che, seppur ufficialmente abbattuto (la colonna spezzata), ancora resiste e lavora per tornare a splendere (il fatto che la colonna sia ancora in piedi).

Con l’avvento di Jean-Baptiste Willermoz, portatore delle dottrine di Martinez de Pasqually e dell’Ordine degli Eletti Cohen dell’Universo, l’emblema della colonna spezzata si arricchisce di un nuovo e più profondo significato.

Per comprenderlo dobbiamo partire dal racconto martinezista sulla creazione e sulla caduta di Adamo, così come sono narrati nel “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”.

In principio tutto esisteva in potenza nella mente di Dio. Nulla però era ancora stato creato, o, meglio, emanato dal Creatore. Prima che il tempo esistesse, Dio emanò i Primi Spiriti, da lui separati. Essi erano in intima connessione col Creatore e il loro compito era quello di esercitare un culto spirituale al Creatore, attraverso le leggi che Dio stesso aveva stabilite. Tali leggi sono eterne e inviolabili.

A questi Primi Spiriti era stato dato anche il libero arbitrio, caratteristica necessaria affinché essi potessero agire. Infatti:

[ … ] non si può loro rifiutare il libero arbitrio con il quale sono stati emanati, senza distruggere in essi la facoltà, la proprietà e la virtù spirituale e personale che loro erano necessarie per operare con precisione nei limiti in cui dovevano esercitare la loro potenza.[1]

Ed essi erano pienamente coscienti delle leggi divine:

Questi primi capi avevano una conoscenza perfetta di ogni azione divina, poiché erano stati emanati dal seno del Creatore solamente per essere testimoni di fronte a tutte le sue operazioni divine ed alla manifestazione della sua gloria.[2]

Eppure alcuni di essi non seppero rimanere all’interno delle leggi e del loro ruolo, ma si vollero ergere a creatori:

Il loro crimine fu d’aver voluto condannare l’eternità divina; in secondo luogo, d’aver voluto limitare l’onnipotenza divina nelle sue operazioni di creazione e, in terzo luogo, d’aver portato i loro pensieri spirituali fino a voler essere creatori delle cause terze e quarte ch’essi sapevano innate nella onnipotenza del Creatore [ … ].[3]

Appena il pensiero della prevaricazione comparve negli Spiriti, il Creatore ne fu consapevole. Ciò nonostante egli non poteva eliminare tale volontà senza violare le leggi eterne da lui stesso stabilite. La prevaricazione quindi ebbe luogo, ma Dio evitò che essa potesse giungere al suo fine, imprigionando gli Spiriti perversi nella prigione del mondo materiale. Essi non persero la loro natura e le loro potenzialità, ma ne persero l’utilizzo in virtù della loro prevaricazione.

Per controllare gli Spiriti perversi e governare la loro prigione materiale, Dio emanò un altro essere: Adamo. A lui il Creatore diede i poteri necessari al suo compito e promise di rendere efficaci le sue operazioni. Dio concesse ad Adamo la conoscenza dei suoi pensieri, delle sue volontà e gli diede la facoltà di operare e comandare sul particolare (il potere sulle creature terrestri) sul generale (il potere sulla terra stessa) e sull’universale (il potere sull’universo creato). Il Creatore fece sì che Adamo compisse queste tre operazioni (comandare al particolare, al generale e all’universale) in modo che, con esse, ricevesse la legge, il precetto e il comandamento. Con questo, Adamo aveva tutto ciò che gli era necessario per compiere il suo ruolo. Anche Adamo, come gli Spiriti Primi, aveva il libero arbitrio, necessario per le sue azioni e operazioni. Questo non significa che egli avesse facoltà di violare le leggi divine o disobbedire ai comandamenti del Creatore, ma solo che egli era libero di operare secondo il suo arbitrio per realizzare la sua opera.

Contemplando le opere fatte con le sue tre operazioni (quella particolare, quella generale, quella universale), Adamo si sentì grande e desiderò di aumentare la sua conoscenza dei pensieri del Creatore. Ma egli non poteva percepirli se non col consenso del Creatore stesso. Non potendo, quindi, approfondire la comprensione delle proprie operazioni per suo conto, Adamo finì con l’essere preso da pensieri disordinati. Tali pensieri furono percepiti e compresi anche dagli Spiriti perversi, che ne approfittarono.

Uno degli Spiriti perversi si presentò ad Adamo, sotto una forma gloriosa e luminosa, e lo invitò a usare il suo potere per i propri scopi e non per quelli del Creatore. Adamo cadde, in conseguenza del turbamento dato dai discorsi dello Spirito perverso, in uno stato di estasi animale, durante il quale il tentatore riuscì a insinuare in Adamo il suo pensiero malvagio.

Al suo risveglio, Adamo decise di compiere una quarta operazione, contraria alla volontà del Creatore:

Adamo operò dunque il pensiero demoniaco facendo una quarta operazione, nella quale usò tutte le parole potenti che il Creatore gli aveva trasmesso per le sue tre prime operazioni, sebbene avesse interamente rigettato il cerimoniale di queste stesse operazioni. Egli fece uso, con preferenza, del cerimoniale che il demonio gli aveva insegnato, come pure del piano che ne aveva ricevuto per attaccare l’immutabilità del Creatore. Adamo ripeté ciò che i primi spiriti perversi avevano concepito d’operare, per divenire creatori a scapito delle leggi che l’Eterno aveva loro prescritto per servire loro da limiti nelle loro operazioni spirituali divine. Questi primi spiriti non dovevano nulla concepire né intendere in materia di creazione, essendo solamente creatori di potenza, Adamo non doveva aspirare più che essi a questa ambizione di creazione d’esseri spirituali che gli fu suggerita dal demonio.[4]

Come fu per la prevaricazione degli Spiriti perversi, anche per Adamo, il Creatore non impedì le sue azioni, rispettando il suo libero arbitrio.  L’operazione di Adamo ne determinò però la caduta ed egli fu imprigionato in quello stesso mondo materiale di cui doveva essere il carceriere.

La colonna del quadro rappresenta, quindi, lo stato di Adamo, il quale dallo stato originario e glorioso (la colonna integra) è decaduto in uno stato di inferiorità e di privazione (la colonna spezzata).

Molto importante è però il fatto che la colonna sia ancora in piedi, nonostante tutto. Questo rappresenta la speranza e la possibilità della reintegrazione, del ritorno allo stato di grazia originario. L’uomo, infatti, mantiene tutte le potenzialità anche se i suoi poteri originali gli sono negati a causa della prevaricazione e della caduta.

Inoltre, anche se il collegamento col Creatore non è più diretto, ma deve essere mediato, esso permane. L’uomo, nel momento stesso della sua prevaricazione e caduta, si è reso conto del suo errore, a differenza dei Primi Spiriti perversi. Il suo pentimento non ha evitato la caduta e la punizione in questo mondo, ma ha fatto sì che Dio si riconciliasse con lui e gli desse la possibilità di compiere un percorso di reintegrazione. Pur nelle epoche più oscure della storia, Dio fa sì che permanga un resto di uomini giusti, depositari della retta via verso la reintegrazione. A questo si riferisce il profeta Geremia:

Da lontano gli è apparso il Signore:

«Ti ho amato di amore eterno,

per questo ti conservo ancora pietà.

Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata,

vergine di Israele.

Di nuovo ti ornerai dei tuoi tamburi

e uscirai fra la danza dei festanti.

Di nuovo pianterai vigne sulle colline di Samaria;

i piantatori, dopo aver piantato, raccoglieranno.

Verrà il giorno in cui grideranno le vedette

sulle montagne di Èfraim:

Su, saliamo a Sion,

andiamo dal Signore nostro Dio»

Poiché dice il Signore:

«Innalzate canti di gioia per Giacobbe,

esultate per la prima delle nazioni,

fate udire la vostra lode e dite:

Il Signore ha salvato il suo popolo,

un resto di Israele».[5]

E San Paolo di Tarso nella sua lettera ai Romani:

Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin dal principio. O non sapete forse ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele?

Signore, hanno ucciso i tuoi profeti,

hanno rovesciato i tuoi altari

e io sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita.[6]

Cosa gli risponde però la voce divina?

Mi sono riservato settemila uomini, quelli che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal.[7]

Così anche al presente c’è un resto, conforme a un’elezione per grazia. E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia.[8]

Proprio l’accenno alla grazia della lettera ai Romani ben spiega il concetto: anche nel buio del mondo spirituale il Creatore mantiene sempre accesa una Luce della sua grazia, della sua benedizione, affinché chi desideri lavorare per la propria reintegrazione possa trovare gli strumenti necessari. A questo si riferiscono quindi la colonna spezzata e la scritta “adhuc stat”.

L’”adhuc stat” è uno dei più importanti simboli del Rito Scozzese Rettificato. Esso rappresenta al contempo il ricordo della caduta dell’uomo, che rende necessario il Lavoro per la reintegrazione, la facoltà dell’uomo di riuscirvi, la sua speranza e l’alleanza col Creatore, che nonostante le colpe dell’umanità, mantiene sempre un resto della sua grazia per Adamo e la sua discendenza.

Enrico Proserpio

[1] Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 27.

[2]Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagine 28 – 29.

[3]Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 30.

[4]Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 35.

[5] Libro di Geremia, capitolo 31, versetti 3 – 7, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Riferimento al Primo libro dei Re, capitolo 19, versetti 10 – 14.

[7] Riferimento al Primo libro dei Re, capitolo 19, versetto 18.

[8] Lettera ai Romani, capitolo 11, versetti 2 – 6, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002. I corsivi sono presenti nel testo originale.