Considerazioni sui viaggi del candidato durante il Ricevimento al primo grado

La cerimonia di Ricevimento al grado di Apprendista del Rito Scozzese Rettificato prevede che il candidato compia, bendato e condotto per mano dal Secondo Sorvegliante, tre viaggi simbolici attorno al tempio.

Ogni viaggio porta il recipiendario a passare uno degli stadi successivi del percorso iniziatico del Rettificato, a incontrare un elemento e a ricevere una massima morale nell’ordine evidenziato nello schema sottostante.

Primo viaggio:

  • Elemento: fuoco;
  • Stadio: cercante;
  • Massima: “L’uomo è l’immagine immortale di Dio, ma chi potrà riconoscerla se egli stesso la sfigura?”.

Secondo viaggio:

  • Elemento: acqua;
  • Stadio: perseverante;
  • Massima: “Colui che arrossisce della religione, della virtù e dei suoi Fratelli è indegno della stima e dell’amicizia dei Massoni”.

Terzo viaggio:

  • Elemento: terra;
  • Stadio: sofferente;
  • Massima: “Il Massone il cui cuore non si apre ai bisogni e all’infelicità degli altri uomini è un mostro nella società dei Fratelli”.

Per quanto riguarda i tre stadi, essi prefigurano il percorso dei primi tre gradi. Ogni grado dell’Ordine, infatti, corrisponde a uno di essi, che ne costituisce, per così dire, l’essenza:

  • Apprendista: cercante;
  • Compagno: perseverante;
  • Maestro: sofferente.

L’Apprendista è descritto come “cercante”, poiché si è appena rivolto alla Loggia per iniziare il suo percorso ed è tutto intento alla ricerca della sua via. Non tratteremo qui gli altri due stadi, poiché ineriscono a gradi superiori. Nel Ricevimento al primo grado essi sono solo citati, come anticipazione di ciò che verrà e che si affronterà più avanti.

Discorso più complesso è quello che riguarda gli elementi e il loro collegamento con i viaggi. Si sarà certamente notato che il riferimento è a soli tre elementi (fuoco, acqua, terra) e non a quattro. Il sistema simbolico del Rettificato, infatti, considera solo questi tre. L’aria non vi è compresa, ma è ritenuta come derivante dagli altri tre elementi. Troviamo qui un’altra unicità del nostro Rito all’interno dell’alveo della Massoneria: gli altri Riti massonici che fanno riferimento agli elementi durante l’Iniziazione, si riallacciano al simbolismo ermetico che ne considera quattro. Si tratta solamente di un differente modo di rappresentare la realtà e non di una differenza sostanziale, come già diceva Saint-Martin in una lettera a Kirchberger:

[…] è possibile che ogni scrittore su questa materia possa aver attinto dalla sorgente, ma che tutti si esprimano differentemente. L’unico modo per superare il linguaggio è quello di considerare i principî. Per esempio, leggo ogni giorno in Jacob Böhme che vi sono quattro elementi; ma io sono geometricamente, numericamente, e metafisicamente certo che ce ne siano solo tre. Questo non impedisce di comprenderci, perché vedo che la nostra differenza è solo nel linguaggio.[1]

L’origine del simbolismo dei tre elementi non è certa. Vi si può vedere una certa influenza ebraica e qabbalistica, ma solo lontana e “riadattata”. Nel “Libro della Formazione” (Sepher Jetsirah), uno dei testi qabbalistici più antichi, si parla di tre elementi costituenti la materia, ma essi sono fuoco, aria, acqua. Se il simbolismo martinezista viene da qui (il che è possibile, viste le origini ebraiche del filosofo francese), esso si è modificato nell’adattarsi al nuovo sistema e delle sue origini ha conservato solamente il numero degli elementi.

Facciamo notare il riferimento alla certezza “geometrica” che il Saint-Martin esprime nella lettera sopra citata: egli fa riferimento alla dottrina martinezista, che vedeva nel triangolo equilatero la forma simbolica del “tempio generale terrestre”[2], ovvero di questa terra. Un discorso che si fa ancor più necessario quando ci si riferisce ai punti cardinali, così come sono concepiti e collegati agli elementi nella dottrina di Martinez de Pasqually. Il triangolo terrestre ha tre vertici, corrispondenti a tre “direzioni” o punti cardinali (Nord, Sud, Ovest), collegati ai tre elementi secondo lo schema qui sotto riportato:

  • Nord: acqua;
  • Sud: fuoco;
  • Ovest: terra.

Si noterà, però, che nel tempio e sul tappeto di Loggia si vedono rappresentati i quattro soliti punti cardinali e non solamente i tre dello schema martinezista. Non si tratta di una contraddizione, ma di una questione di diversi livelli di esistenza: i quattro punti cardinali del tappeto di Loggia indicano il nostro mondo materiale, nel quale viviamo e operiamo. I tre vertici del triangolo martinezista rappresentano invece un livello spirituale che come tale va interpretato e compreso.

Nel momento in cui il candidato tocca l’elemento che si trova alla fine del suo viaggio, il Fratello Introduttore, che lo segue per tutta la parte della cerimonia di Ricevimento che si svolge nel tempio, pronuncia un motto che accenna al simbolismo dell’elemento stesso, mostrandone il duplice aspetto di utile strumento e di pericolo a seconda dell’uso che se ne fa.

Ecco i tre motti:

  • Il fuoco consuma la corruzione, ma divora l’essere corrotto;
  • È attraverso la dissoluzione delle cose impure che l’acqua lava e purifica, ma essa cela le loro influenze funeste e i principi della putrefazione;
  • Il grano messo nella terra vi riceve la vita, ma se il suo germe è alterato, la terra ne accelera la putrefazione.

È innegabile una certa influenza ermetica sulla stesura di questi motti. Il richiamo alla putrefazione e alla necessità di purificazione non lasciano dubbi. Anche qui, però, si tratta di un’influenza adattata al sistema simbolico del Rettificato e non un inserimento di elementi alchemici ed ermetici tout court.

Le tre massime che il Maestro Venerabile pronuncia dopo ogni viaggio sono in apparenza semplici motti morali, ma sono in realtà concetti fondamentali che dovrebbero guidare la vita del Massone rettificato.

La prima invita il candidato (e tutti i Fratelli con lui) a non “sfigurare” col vizio l’immagine di Dio che l’uomo è. In essa si trova anche un riferimento chiaro, benché non approfondito, al concetto di uomo creato a “immagine e somiglianza” di Dio, che possiamo vedere come un ulteriore invito a studiare la religione cristiana e le Scritture.

La seconda avverte che nessun percorso spirituale può essere portato avanti se ci si vergogna del percorso stesso e dei propri compagni di strada. È necessario che il Massone sia ben convinto della via che ha intrapreso, o meglio farebbe a fermarsi.

La terza fa invece riferimento al dovere di “beneficienza”, ovvero al dovere che ogni Massone ha di lavorare al miglioramento dell’Umanità intera.

Speriamo di aver dato, con queste poche parole, qualche utile spunto di riflessione e approfondimento sul ricchissimo simbolismo del Rito Scozzese Rettificato.

Enrico Proserpio


[1] Questo brano della lettera a Kirchberger di Louis-Claude de Saint-Martin è citato, in una nota al testo, nella presentazione al libro “L’uomo di desiderio”, nell’edizione Jouvence, Milano, 2015, pagina 8.

[2] Si veda Martinez de Pasqually, “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”, capitolo 69.

La camera di ritiro

La camera di ritiro o camera di preparazione è il primo luogo con cui il candidato viene a contatto una volta che chiede, “bussando”, di essere iniziato alla Massoneria.

La camera di ritiro deve essere un luogo scuro, con finestre ben chiuse e lontano dalle camere più importanti della Loggia. Disposto in tale modo per poter difendere il candidato da distrazioni esterne che deve ignorare. La sacralità della stanza sarà ben custodita da un Fratello Guardiano.

L’illuminazione del locale viene data da una lampada, o un candeliere, posati su una scrivania. Una luce fioca che permette al candidato di osservare alcuni oggetti.

In ordine sono presenti:

  • Un quadro con lettere gialle su sfondo nero;
  • Un quadro con una testa di morto sopra a due ossa incrociate di colore argento su sfondo nero e delle istruzioni;
  • Una Bibbia con l’antico e il nuovo testamento;
  • Un quadro contenente delle sentenze;
  • Un campanello per chiedere aiuto, se necessario;
  • Un foglio con scritte le tre domande preparatorie, le cui risposte formeranno il testamento;
  • Un portaoggetti dove riporre metalli e gioielli del candidato;
  • Una brocca piena d’acqua;
  • Una benda nera.

Nel primo quadro il candidato troverà su sfondo nero delle riflessioni di colore giallo. Esse sono volte a far meditare con particolare attenzione alle seguenti tematiche: non credere di essere soli nella solitudine in cui ci si trova; ritirarsi in se stessi per vedere se esiste un essere al quale dobbiamo l’esistenza e la vita; cercare di riavvicinarsi a questo essere superiore, desiderandolo e sottomettendoci alle sue leggi; che per raggiungere questo traguardo felice bisogna essere disposti a compiere un lavoro penoso e sofferto; di prendere coraggio, perché queste pene saranno passeggere e la ricompensa assicurata; che la giustizia pretende questo duro lavoro scegliendo bene e considerando lo stato miserabile e tenebroso in cui ci si trova e la luce che ci viene promessa. Se si decide di dedicarsi generosamente a questo difficile percorso ci verrà data una guida fidata che ci proteggerà dai pericoli.

Il secondo quadro simboleggia la morte del profano. Cerca di insegnargli a spogliare il “vecchio uomo” e prepararlo a una nuova nascita spirituale, a una trasmutazione. Sopra la testa di morto c’è scritto: “Tu ti sei sottomesso alla morte” mentre sotto le ossa: “La vita era contaminata, ma la morte ha riparato la vita”.

La Bibbia è posta per essere studiata con cura, far propria la dottrina e le verità che offre per fortificare gli uomini. La Bibbia verrà poi usata in diversi momenti specifici durate il Ricevimento.

Su alcuni fogli sono presenti le seguenti sentenze: “Se la curiosità ti ha condotto qui, vattene”, “Se la tua anima ha provato spavento, non andare oltre” e “Se perseveri, sarai purificato dagli elementi, uscirai dall’abisso delle tenebre, vedrai la luce”. Nel rito Scozzese Antico e Accettato troviamo anche la parola “VITRIOL” che significa “Visita l’interno della terra e, rettificando, troverai la pietra occulta” ed è un invito alla ricerca della stessa anima nel silenzio e nella meditazione. Si potrebbe descrivere questo cambiamento di stato con una metafora: dalla decomposizione di un guscio di crisalide in sonno uscirà una meravigliosa farfalla.

Le tre domande preparatorie sono volte a far raccogliere il candidato in sé stesso per rispondere sinceramente, farsi ammettere e illuminare dall’ordine massonico. Da un punto di vista filosofico le tre domande dovrebbero essere queste: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” da cui si può ritrovare il ternario “passato, presente e futuro”.

La prima domanda chiede se crediamo nell’esistenza di un Dio creatore e cosa pensiamo della religione Cristiana. La seconda invece chiede che idea abbiamo della virtù (virtù considerata nei rapporti che abbiamo con Dio e la religione, con noi stessi e gli altri). La terza si riferisce alla nostra opinione sui veri bisogni degli uomini e come possiamo esser loro più utili.

Rispondere a queste domande non è per niente semplice poiché esse costituiranno il testamento del candidato che dovrà testimoniare le proprie intenzioni filosofiche perché, come dice Louis Claude de Saint Martin, l’uomo è il vero tempio e possiede in sé stesso i candelabri, l’altare sacrificale, i profumi e le offerte, l’ara e il fuoco[1].

Il portaoggetti è necessario per l’introduzione del candidato in Loggia. Egli dovrà spogliarsi di tutti i metalli, del denaro e dei gioielli poiché si dice che i metalli possano impedire il flusso delle correnti magnetiche. Tale movimento simbolico è volto a insegnare che tutto si paga al mondo e per poter ricevere si deve prima dare: deve essere un abbandono delle idee preconcette dato che proprio i metalli rappresentano le cose che brillano di una luce ingannevole, che è una ricchezza illusoria della quale un saggio non si cura.

I metalli verranno restituiti una volta che il candidato avrà effettuato tutto il percorso e ricevuto finalmente la luce.

La via iniziatica conduce all’illuminazione e, per fare questo, il candidato troverà una benda, possibilmente di colore scuro, nero. Si pensa che la benda sia uno dei simboli elementari ma, in realtà, è uno dei più profondi della Massoneria: il candidato dovrà acconsentire a indossarla per poter procedere all’ingresso in Loggia poiché, essendo stato nelle tenebre, dovrà fidarsi del Sorvegliante, che è colui che cammina nella luce e gli permetterà di non smarrirsi. Non dobbiamo mai dimenticare che, una volta caduta la benda dagli occhi, la luce è alla fine del cammino. 

Leggendo un’opera del rituale di iniziazione mi piace riprendere uno spunto che condivido con voi: “A tutta questa serie di simboli psicologici si aggiunge la scoperta di un nuovo mondo fatto di simboli prettamente esoterici che il profano non conosce. Tra le varie fasi ammonitrici dipinte sul muro, una lo avverte che se persevererà sarà purificato, verrà fuori dall’abisso delle tenebre e verrà la luce. In questa frase si riassume e anticipa tutto ciò che il recipiendario si appresta a vivere. La luce a cui si fa riferimento non è ovviamente la luce solare, ma un’allegoria della capacità di vedere il mondo con nuovi occhi, perché la materia prima su cui l’apprendista libero muratore dovrà costantemente lavorare per trasformare i suoi vizi in virtù è la sua stessa mente/anima che dovrà raggiungere uno stato di consapevolezza superiore risvegliandosi a un nuovo livello di coscienza”.

Ricordo che al mio Ricevimento cercavo di dare una spiegazione a tutta questa preparazione. Da profano era difficile comprendere, ma pian piano, mattone dopo mattone, riesco a trovare delle risposte anche se so bene che nonostante questo per poter raggiungere quello stato di conoscenza la strada è infinita.

Andrea B.


[1] Si veda Juole Boucher, “La simbologia massonica”, edizioni Atanòr, Roma, 2003, pagina 32.

La fratellanza nella Libera Muratoria

La fratellanza è, senza ombra di dubbio, uno dei valori cardine della Libera Muratoria, quale che sia il Rito preso in considerazione. Poiché, però, apparteniamo al Rito Scozzese Rettificato, cercheremo di declinare la questione in considerazione del suo simbolismo e della sua dottrina. Partiremo, quindi, da Martinez de Pasqually e Sant’Agostino per poi analizzare la questione con l’ausilio del prezioso scritto di Sant’Aelredo di Rievaulx intitolato “De spiritali amicitia[1].

Partiamo dunque dal mito della caduta di Adamo, il quale, come abbiamo visto nella tavola sull’”Adhuc stat”, è centrale nella simbologia del Rettificato e particolarmente in quella del primo grado. Adamo disobbedisce agli ordini di Dio e, tentato dagli spiriti perversi che avrebbe dovuto dominare, cerca di creare una sua creatura attraverso un’operazione disordinata e blasfema. Egli così si sporca e si contamina e precipita nel mondo perdendo quello stato di gloria che gli era proprio e, con esso, il contatto diretto col Creatore.

Questo mito adombra un concetto importante: l’unione di tutti gli esseri umani in un solo grande essere spirituale (l’Adam Qadmon della Qabbalah) di cui ognuno è parte. Anche Sant’Agostino ipotizza che possa essere così, il che renderebbe tutti gli esseri umani in qualche modo colpevoli:

[…] se è stata creata una sola anima, da cui sono derivate quelle di tutti gli uomini che nascono, chi può dire di non aver peccato quando il primo ha peccato?[2]

Adamo, dopo aver peccato, comprende subito il suo errore e, per questo, Dio gli dà la possibilità della riconciliazione e della reintegrazione nel suo stato di gloria. Fin da subito Dio fa sì che nel mondo vi siano segni del futuro a venire, utili al progresso spirituale dell’uomo. Gli eventi, le persone, perfino le cose divengono così dei “tipi”, delle rappresentazioni sia degli eventi passati che delle promesse future. Ecco un esempio tratto dal “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”: secondo la narrazione di Martinez de Pasqually, Dio mandò un suo emissario per istruire Adamo ed Eva, spiegando loro il significato della nascita e morte di Abele:

Il Creatore vi dice per mezzo della mia parola che voi non avete l’uno e l’altra prodotto questa posterità di Abele se non per essere il vero tipo di colui che verrà in un tempo per essere il vero e l’unico riconciliatore di tutta la posterità d’Adamo.[3]

Abele, quindi, diviene “tipo” del Cristo, che, come lui, nascerà e morirà per i peccati dell’Umanità.

La fratellanza massonica è dunque l’unione di tutti gli esseri umani? Essa coincide con la fratellanza umana? La risposta è no. L’essere umano, parlando in generale, oggi non ha ancora uno stato di evoluzione spirituale sufficiente a renderlo consapevole di questa profonda unione tra gli individui e per questo si rende ancora necessaria l’esistenza di persone dedite alla ricerca spirituale in vista della reintegrazione. I Liberi Muratori sono senza dubbio tra queste. Tra i Liberi Muratori c’è un legame particolare, frutto di una comune Iniziazione e di un comune fine. E anche se non tutti coloro che sono stati ricevuti in una Loggia sono in grado di percepirne il profondo significato e la profonda potenza, tale legame lavora in essi affinché la fratellanza massonica divenga il tipo di quella umana che verrà e i Massoni possano divenire quell’esempio di virtù e di alta spiritualità che dovrebbero essere.

Per approfondire il concetto di fratellanza massonica, come abbiamo accennato, ci rifaremo al “De spiritali amicitia” di Sant’Aelredo di Rievaulx. L’autore tratta dell’amicizia più profonda e spirituale, che è cosa ben diversa da quella comunemente intesa e possiamo dire, senza tema di smentita, che l’”amicizia spirituale” di Aelredo è sostanzialmente lo stesso concetto della fratellanza massonica. L’unica differenza è il contesto: Aelredo parla del profondo rapporto che si instaura tra chi crede profondamente in Cristo e su lui fonda anche l’amicizia con gli altri esseri umani, noi invece trattiamo della fratellanza tra coloro che seguono la via latomistica. In entrambi i casi a sostegno dell’amicizia-fratellanza c’è un comune sentire e un’unione che viene anche dall’esterno (dall’eggregoro, direbbero certi esoteristi), che aiuta l’uomo a superare le difficoltà:

L’amicizia spirituale dunque viene generata dalla somiglianza di vita, di costumi e di aspirazioni tra persone buone […].[4]

Fondamentale è il fatto che le persone coinvolte siano “buone”. Non è vera amicizia (o fratellanza) se si è solidali nel vizio:

[…] si arrogano lo splendido titolo dell’amicizia quelli fra cui è in atto la connivenza nei vizi; poiché chi non ama non è amico; né ama sicuramente l’uomo chi ama l’iniquità. «Chi» infatti «ama l’iniquità» non ama, bensì «odia la propria anima». Ora, chi non vuole bene alla propria anima non può tanto meno amare l’anima altrui.[5]

Dove invece le intenzioni sono buone e il legame sincero:

Ove l’amicizia è così, là certamente esiste il «volere e non volere la stessa cosa», e tanto più dolce quanto più sincero, tanto più delizioso quanto più santo. Ove ci si ama così, non è possibile volere qualcosa di sconveniente, non volere ciò che è davvero utile.[6]

Perché l’amicizia spirituale è legata strettamente alle virtù (in particolare alle virtù cardinali, che sono importanti anche per il nostro Rito):

Tale amicizia è diretta dalla prudenza, retta dalla giustizia, custodita dalla fortezza e regolata dalla temperanza.[7]

Anche in Massoneria troviamo concetti molto simili. Ecco un breve stralcio del “Catechismo sulla solidarietà massonica” riportato nel libretto dei rituali di una delle maggiori Obbedienze italiane (di Rito Scozzese Antico e Accettato):

Domanda: Si dice che la Massoneria procuri, a coloro che vi si associano, vantaggi morali e materiali. Che cosa ne pensate?

Risposta: Tale asserzione non risponde alla verità dei fatti. Il profitto materiale è assolutamente escluso per chi appartiene alla Massoneria. Il vantaggio morale non può ricercarsi che nella fermezza del carattere che è una conseguenza dell’elevarsi ad alte idealità.

Domanda: Come potete ciò affermare? Non dovete voi favorire sempre ed in qualsiasi maniera i Fratelli dell’Ordine?

Risposta: No. Gli Statuti m’insegnano di essere umano, sincero, giusto. Se favorissi un Fratello, per la sola ragione che è Fratello, non sarei giusto.

E poco più avanti:

Domanda: Dato che sedeste in un consesso deliberante, in una carica pubblica, non conferireste la preferenza ad un Fratello, anziché ad un profano?

Risposta: Gli Statuti dell’Ordine e le Costituzioni mi obbligano di proteggere i Fratelli nel limite del giusto e dell’onesto. Non sarei giusto e molto meno onesto se preferissi con il voto il meno degno.

Ovviamente non possiamo pensare che ogni Massone provi sentimenti di tale profondità verso tutti i Fratelli. La fratellanza deve quindi essere vista come un fine da raggiungere, un ideale, un faro che deve guidare la nostra azione nei confronti degli altri Massoni e non solo. Inoltre, essa ci deve insegnare alla disponibilità nei confronti dell’altro, tanto nel fornire aiuto e consiglio quando necessario, quanto nel ricevere insegnamenti e correzioni che ci aiutino a sgrossare la nostra pietra grezza, per contribuire alla costruzione del Tempio celeste, di quella Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse di Giovanni che altro non è se non la reintegrazione dell’’Umanità nel suo stato di gloria.

Enrico Proserpio


[1] Il testo si trova facilmente, sia in edizioni cartacee che on line. Il titolo è solitamente tradotto come “L’amicizia spirituale” o “La perfetta amicizia”.

[2] Sant’Agostino, “Il libro arbitrio”, Città Nuova Editrice, Roma, 2019, pagina 235.

[3] Jacques Martinez de Pasqually, “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”, edizioni Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 91.

[4] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 67.

[5] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 59.

[6] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 67.

[7] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 67.

La Parola del secondo grado nel Rito Scozzese Rettificato

Davanti al Tempio di Salomone, a lato dell’ingresso d’Occidente, il re Salomone fece erigere due Colonne di bronzo dal forte senso simbolico. Così dice Ruggiero Di Castiglione:

La colonna di destra (Jakin) evoca, infatti, l’idea di «solidità»; mentre quella di sinistra (Boaz), l’idea di «forza». L’unione dei due nomi indica «stabilità».[1]

La storia della costruzione del Tempio e delle Colonne è narrata nella Bibbia, precisamente nel primo libro dei Re[2]:

Fuse due colonne di bronzo, ognuna alta diciotto cubiti e dodici di circonferenza. Fece due capitelli, fusi di bronzo, da collocarsi sulla cima delle colonne; l’uno e l’altro erano alti cinque cubiti.

Fece due reticoli per coprire i capitelli che erano sopra le colonne, un reticolato per un capitello e un reticolato per l’altro capitello. Fece melagrane su due file intorno al reticolato per coprire i capitelli sopra le colonne; allo stesso modo fece per il secondo capitello. I capitelli sopra le colonne erano a forma di giglio. C’erano capitelli sopra le colonne, applicati alla sporgenza che era al di là del reticolato; essi contenevano duecento melagrane in fila intorno a ogni capitello. Eresse le colonne nel vestibolo del tempio. Eresse la colonna di destra, che chiamò Iachin ed eresse la colonna di sinistra, che chiamò Boaz. Così fu terminato il lavoro delle colonne.[3]

Qui ci occuperemo del significato della Colonna Boaz e del suo nome, il quale è anche la Parola del grado di Compagno[4].

Come si diceva, Boaz (o Booz) significa “forza” o “in forza”. Essa rappresenta una delle virtù necessarie alla pratica iniziatica. In questo grado, però, la forza non appartiene ancora all’Iniziato, ma risiede nella Colonna, nel Tempio. Il Compagno, quindi, si deve appoggiare, per il suo lavoro, alla Loggia e all’Ordine e non ha ancora gli strumenti necessari a camminare da solo. A riprova di ciò ricordiamo che nel Rito Scozzese Rettificato ogni grado corrisponde a una delle sette virtù. La Fortezza, a cui la Parola del secondo grado sembra collegarsi, è la virtù del quarto grado (Maestro Scozzese di Sant’Andrea), ultimo dei gradi strettamente massonici di tale Rito. Il Fratello che abbia raggiunto quel grado ha tutti gli strumenti necessari per muoversi autonomamente e indipendentemente sul piano dei Piccoli Misteri, avendo completato la parte muratoria del percorso connesso alle quattro Virtù Cardinali. Da queste basi potrà partire per ascendere verso la realizzazione dei Grandi Misteri.

La Fortezza è messa come ultima delle Virtù Cardinali da realizzare in sé perché essa necessita delle altre per poter agire nel modo corretto. Senza la guida delle altre tre (Giustizia, Temperanza, Prudenza) la Fortezza rischia di divenire forza bruta, violenta, trasformandosi da Virtù in vizio. Il Compagno ha come Virtù la Temperanza: egli, accudito e aiutato dalla forza della Loggia e della Massoneria tutta, dovrà imparare a placare le passioni, a incanalarle in modo costruttivo, a trovare quel “giusto mezzo” tra gli opposti che diviene sintesi tra gli stessi.

C’è però un altro aspetto da considerare, che è tipico del Rito Scozzese Rettificato e di lui solo (in ambito massonico). Ai significati della Parola del secondo grado Martinez de Pasqually aggiunge un significato ulteriore, attribuendola, come nome proprio, a uno dei figli di Caino. Prima di addentrarci nel racconto martinezista segnalo che anche nella Bibbia c’è un personaggio di nome Boaz (o Booz). Si tratta di un antenato del Re Davide (e quindi di Gesù di Nazareth). Lo incontriamo nel Libro di Rut, dove si narra la storia della moabita Rut, vedova di un uomo ebreo che si era trasferito nel regno di Moab, che alla morte del marito decide di seguire la suocera, Noemi, e vivere in Israele. Giunta lì, mentre spigola, Rut incontra Booz, suo futuro marito:

Noemi aveva un parente del marito, uomo potente e ricco della famiglia di Elimèlech, che si chiamava Booz. Rut, la Moabita, disse a Noemi: «Lasciami andare per la campagna a spigolare dietro a qualcuno agli occhi del quale avrò trovato grazia». Le rispose: «Va’, figlia mia». Rut andò e si mise a spigolare nella campagna dietro ai mietitori; per caso si trovò nella parte della campagna appartenente a Booz, che era della famiglia di Elimèlech. Ed ecco Booz arrivò da Betlemme e disse ai mietitori: «Il Signore sia con voi!». Quelli gli risposero: «Il Signore ti benedica!». Booz disse al suo servo, incaricato di sorvegliare i mietitori: «Di chi è questa giovane?». Il servo incaricato di sorvegliare i mietitori rispose: «È una giovane Moabita, quella che è tornata con Noemi dalla campagna di Moab. Ha detto: Vorrei spigolare e raccogliere dietro ai mietitori. È venuta ed è rimasta in piedi da stamattina fino ad ora; solo in questo momento si è un poco seduta nella casa».[5]

Torniamo al Martinez de Pasqually. Per l’autore settecentesco “Boaz” è il nome del decimo figlio di Caino:

Caino era un grand’uomo di caccia, egli aveva ugualmente allevato tutti i suoi figli maschi alla caccia, e soprattutto il suo decimo figlio sul quale aveva posto tutto il suo attaccamento. Egli non diede a questo suo figlio altro talento che quello della caccia, essendo gli altri suoi figli più portati ai lavori d’immaginazione ed alle opere manuali. Caino diede a questo decimo figlio il nome di Boaz, o Booz, che vuol dire figlio d’uccisione.[6]

Il significato dato dal Martinez de Pasqually al nome Boaz non trova riscontro nella tradizione massonica che non sia di Rito Scozzese Rettificato. Inoltre, questo figlio di Caino non compare nelle Scritture, essendo Enoch l’unico figlio citato[7]. Questo, però, non cambia la profondità e il valore dottrinale delle tesi martineziste, che provengono da un filone iniziatico di grande spessore. Cerchiamo quindi di analizzare la cosa alla luce delle dottrine di tale filone.

Booz è il decimo figlio di Caino. Il dieci è numero divino, che indica il compimento della via. Il decimo figlio, quindi, è il compimento del destino e del tipo di Caino, ovvero il compimento della prevaricazione e della distruzione. Non a caso è lui a causare la fine di suo padre.

Sia Booz che Caino decidono di fare una battuta di caccia, l’uno all’insaputa dell’altro, nello stesso luogo:

Essi partirono dunque insieme per andare a caccia, ma Booz, senza saperlo, prese la stessa strada di suo padre Caino e, essendo tutti e due in un macchione che erano abituati a battere, Booz scorse l’ombra di una figura attraverso questo macchione chiamato Onam, che vuol dire dolore. Booz spiccò allora una freccia che andò a penetrare il cuore di suo padre, avendolo preso per una bestia feroce. Giudicate della sorpresa e del fremito di Booz, allorché fu sul posto dove aveva tirato il suo colpo di freccia e vide suo padre ucciso dalla sua propria mano. Il dolore di Booz fu tanto più grande in quanto sapeva la punizione e la minaccia che il Creatore aveva lanciato contro colui che avesse colpito la persona di Caino[8]. Sapeva che colui che avesse avuto questa sventura sarebbe stato colpito sette volte da pena mortale, o sarebbe stato punito sette volte di morte.[9]

Questi fatti hanno un’importanza particolare essendo essi del tipo della profezia:

Ciò che forma realmente il tipo di profezia, è che l’incontro delle due persone, Caino e Booz, non è premeditato e che l’uno e l’altro si sono trovati senza sapere, nel luogo in cui Caino ricevette il colpo mortale.[10]

Il più profondo valore simbolico del racconto martinezista è comprensibile solo alla luce del terzo grado e non lo affronteremo qui.

Mi limiterò a indicare nella figura di Booz il rischio che l’Iniziato corre nel suo lavoro. Se egli non resterà sulla retta via dello spirito, indulgendo nei vizi e lasciandosi dominare dalle passioni, non potrà che finire con l’incarnare il tipo del prevaricatore e lavorare alla sua stessa fine. Ricordiamo il discorso fatto in precedenza sulla Forza (o Fortezza) e il suo utilizzo. Booz è colui che usa la forza senza essere guidato dalle Virtù. In lui agiscono le passioni dell’intelletto demoniaco, le voci degli spiriti perversi che si sono resi colpevoli della prima prevaricazione. Non a caso egli è l’unico figlio ad avere il solo talento della caccia, espresso alla massima potenza, ovvero un talento violento e distruttivo. Egli lo usa in modo cieco, inconsapevole, e questo porta all’omicidio di suo padre. Se, infatti, agiamo senza consapevolezza, data dalla pratica delle Virtù e dal costante lavoro iniziatico, non possiamo prevedere le conseguenze e imboccheremo la strada contro-iniziatica che porta verso il basso, verso i vizi. In tal senso l’uccisione del padre rappresenta il distacco dallo Spirito, la colpa primordiale, o peccato originale, che ha gettato l’Uomo in questo mondo di materia, dove non gli è più dato di vedere Dio. Il compito dell’Iniziato è quello di sfuggire ai cicli distruttivi dell’intelletto demoniaco per ascendere e giungere alla Reintegrazione. Il Compagno in particolare deve lavorare facendo affidamento sulla Forza della Loggia e della Massoneria, ben meditando i simboli del suo grado e il loro senso, e tenendo sempre presente l’esempio di Booz, figlio di Caino, affinché gli sia di monito.

Enrico Proserpio

[1] Ruggiero Di Castiglione, Alle sorgenti della Massoneria, editrice Atanòr, 1988, pagina 155.

[2] Della costruzione del Tempio di Salomone si parla anche nel Primo Libro delle Cronache, capitolo 22, e nel Secondo Libro delle Cronache, capitolo 3.

[3] Primo Libro dei Re, capitolo 5, versetti 15 – 22, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Non in tutti i Riti Boaz è Parola Sacra del secondo grado. In altri Riti (RSAA, Emulation…) essa è Parola Sacra del primo grado. In questa Tavola si segue la simbologia del Rito Scozzese Rettificato.

[5] Libro di Rut, capitolo 2, versetti 1 – 7, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 99.

[7] Se ne parla in Genesi, capitolo 4, versi 17 – 18.

[8] Si veda Genesi, capitolo 4.

[9] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 100.

[10] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 101.

Considerazioni sulla Giustizia

Una delle peculiarità del Rito Scozzese Rettificato è il collegamento tra i gradi e le Virtù Cardinali e Teologali. I primi quattro gradi, quelli prettamente massonici, si ricollegano alle Virtù Cardinali:

  • Apprendista: Giustizia
  • Compagno: Temperanza
  • Maestro: Prudenza
  • Maestro Scozzese di Sant’Andrea: Fortezza

Ci occuperemo qui della Giustizia, inerente al primo grado. Il riferimento a tale Virtù appare nel Rituale di Ricevimento[1], sia nell’arredamento del Tempio che nel testo. Nel Tempio saranno, infatti, posti due cartelli: uno all’Oriente, con la scritta “Giustizia” e l’altro all’Occidente, con la scritta “Clemenza”. Il Maestro Venerabile, inoltre, rivolge al nuovo Fratello, appena ricevuto in Loggia, delle spiegazioni inerenti il senso delle scritte sopra citate. Indicando il cartello all’Oriente egli spiega:

Le leggi della Giustizia sono eterne e immutabili. Colui che, essendo affranto dai sacrifici che essa esige, rifiuta di sottomettervisi, è un codardo che si disonora e si perde. Non esitate dunque mai Fratello mio, e siate giusto verso tutti gli uomini, senza consultare le vostre passioni, né i vostri interessi personali. Queste armi che vedete puntate contro di voi, non sono che una debole immagine dei rimorsi dei quali sarete preda se voi aveste la disgrazia di mancare di Giustizia e al vostro giuramento.

Facendo poi girare il Fratello, affinché veda il cartello all’Occidente, prosegue:

Fratello mio, se voi siete di animo giusto e sincero, non piangete affatto; la Clemenza tempera i rigori della Giustizia in favore di coloro che si sottomettono generosamente alle sue leggi. Usate dunque la moderazione con gli altri uomini quando essi si saranno resi colpevoli verso di voi.

Alla luce di questi brani possiamo fare alcune considerazioni. Tanto per cominciare risulta evidente che non si sta parlando della semplice giustizia profana, quella delle leggi dello stato e dei tribunali, che della vera Giustizia è il pallido riflesso (quando non un vero e proprio stravolgimento). Lo si può comprendere dall’accenno all’eternità e immutabilità delle leggi, il che le pone su un piano superiore a quello materiale che eterno e immutabile non è. Le leggi a cui si fa riferimento sono dunque quelle del mondo divino, quelle emanate dalla mente di Dio all’origine dei tempi. Da quei principi primi derivano le leggi del mondo materiale e le leggi dello Spirito.

Fu dalla prevaricazione, che altro non è che la disobbedienza alle leggi divine, che derivò il male, il quale non esisteva e che non discende dal Creatore. La prevaricazione, che ha fatto decadere dal loro primo stato di gloria gli spiriti perversi prima e Adamo poi, ha dato origine a una lotta interna all’umanità, alla “discendenza di Adamo” tra l’intelletto buono (proveniente da Dio) e l’intelletto cattivo (proveniente dagli spiriti perversi). In mezzo si trova l’uomo, che deve scegliere tra il seguire i dettami di Dio e lavorare alla propria reintegrazione e il cedere alla tentazione. Il male deriva proprio dalle suggestioni dell’intelletto cattivo e dalla scelta dell’uomo di metterle in atto. Così scrive il Martinez de Pasqually:

Si può vedere, in tutto ciò che ho detto, che l’origine del male non è venuta da alcun’altra causa se non dal cattivo pensiero seguito dalla volontà cattiva dello spirito contro le leggi divine, e non che lo spirito stesso emanato dal Creatore sia direttamente il male, perché la possibilità del male non è mai esistita nel Creatore. Esso nasce unicamente dalla sola disposizione e volontà della sua creatura. Coloro che parlano differentemente non parlano con cognizione di causa delle cose possibili ed impossibili alla Divinità. Allorché il Creatore castiga la sua creatura, gli si dà il nome di giusto, e non quello d’autore del flagello ch’egli lancia per preservare la sua creatura dal patimento infinito.[2]

Possiamo dire che la Giustizia, in senso esoterico del termine, è dunque la capacità di distinguere l’intelletto buono da quello cattivo. Essa è la prima virtù, necessaria a ogni percorso spirituale e a ogni realizzazione. Senza la capacità di distinguere, l’uomo è, infatti, preda di ogni suggestione, di ogni superstizione e di ogni perversione. Per questo la Giustizia è la virtù del primo grado, essendo essa la base necessaria a praticare tutte le altre.

Ma come può l’uomo distinguere ed essere certo di praticare la Giustizia? Nel suo stato di privazione il Minore non ha la visione chiara delle cose e può cadere nell’errore. Per tal motivo esistono le leggi morali ed etiche, leggi che il massone deve interiorizzare, cercando di comprenderne il senso profondo per costruirsi quegli strumenti necessari a comprendere e a distinguere. Ogni uomo dovrà lavorare su se stesso e fare il proprio percorso di comprensione, essendo la via di ognuno unica. Non ci dilungheremo qui sui principi morali, che da soli richiederebbero una lunga trattazione. Un accenno però ad alcuni punti è necessario.

Il primo punto è il dovere, per il massone, di comportarsi secondo giustizia, per quanto possibile. L’errore è comprensibile e, a volte, anche perdonabile. La malafede non lo è. In tal senso il Libero Murature non deve cercare scuse per le proprie debolezze o, peggio, non deve essere ipocrita. Il Lavoro di Loggia non ha senso se nel mondo profano i principi vengono abbandonati in nome dell’interesse immediato e personale. Il mondo profano non è una cosa distaccata da quello spirituale, ma ne costituisce la base e il terreno di prova. Senza coerenza nei principi non c’è elevazione. Se l’adesione ai principi della Giustizia è solo esteriore, di facciata, non si realizzerà nulla e si rimanderà la propria reintegrazione, poiché allo Spirito non sfugge nulla. Anche la Scrittura ci ricorda di diffidare degli ipocriti:

Nel frattempo, radunatesi migliaia di persone che si calpestavano a vicenda, Gesù cominciò a dire anzitutto ai discepoli: «Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia. Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti. [ … ]»[3]

In tal senso è anche importante il non usare due pesi e due misure nei giudizi, poiché la Giustizia è una e non può essere differente a seconda delle convenienze. Anche qui la Scrittura è chiara:

In quel tempo diedi quest’ordine ai vostri giudici: Ascoltate le cause dei vostri fratelli e giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con lo straniero che sta presso di lui. Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali, darete ascolto al piccolo come al grande; non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio; le cause troppo difficili per voi le presenterete a me e io le ascolterò.[4]

E ancora:

Il doppio peso è in abominio al Signore

e le bilance false non sono un bene.[5]

In questo ultimo passo del Deuteronomio si incontrano anche altri aspetti molto interessanti: il fatto che il giudizio appartenga a Dio e l’esistenza di cause troppo difficili per l’uomo. Le due cose in realtà sono connesse. L’uomo è un essere limitato e come tale non può giudicare in modo certo. Solo Dio ha la possibilità di giudicare senza tema d’errore e, quindi, secondo vera Giustizia. Inoltre la natura umana, imperfetta e debole, induce l’uomo a errare. Non esiste un essere umano che non abbia mai compiuto atti ingiusti e non abbia mai compiuto qualcosa di male. Per questo il Rituale fa accenno anche alla Clemenza, che, da una parte, mitiga la durezza della Giustizia e, dall’altra, ci indica ciò che dobbiamo fare. Per quanto il nostro prossimo ci appaia colpevole, dobbiamo cercare di applicare la comprensione e la Clemenza, ricordandoci sempre della nostra fondamentale incapacità di conoscere e comprendere tutte le ragioni di ciò che vediamo. Per questo, anche nel momento in cui ci si trovi costretti ad agire contro qualcuno e ad applicare le leggi e le norme dell’Ordine o dello stato, lo si dovrà fare senza astio e nella giusta misura. Si dovrà stare attenti ad agire sulla base del buon intelletto che viene dall’alto e non sull’onda di bassi sentimenti di vendetta che sono suggeriti dal cattivo intelletto. Anche la vendetta, infatti, appartiene a Dio:

Non dire: «Voglio ricambiare il male»,

confida nel Signore ed egli ti libererà.[6]

Anche San Paolo scrive:

Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore.[7]

E continua suggerendo come comportarsi con chi compie atti ingiusti nei nostri confronti:

Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male.[8]

Nostro compito è comportarci in modo giusto, è cercare di comprendere e conoscere le vie della Giustizia per seguirle. Applicare tali leggi su chi le viola e vendicare i torti sta invece a Dio, unico ad avere la possibilità di farlo agendo in modo retto e in piena coscienza e conoscenza.

Ovviamente questo non significa che l’uomo non debba mai contrastare chi agisce ingiustamente. Solo che il contrasto all’ingiustizia deve essere portato avanti nel modo opportuno, seguendo i dettami della Ragione, nel senso più elevato e spirituale del termine, e non seguendo la sete di vendetta, come già si sottolineava in precedenza. La legge umana, se creata con questo spirito, diviene quindi uno strumento utile per gestire le ingiustizie senza generarne delle altre. Anche qui, però, chi la applica deve sempre ricordare la Clemenza e la giusta misura, altrimenti la legge stessa rischia di trasformarsi nel male che cerca di combattere. Questo vale per le leggi degli stati, ma anche per la legge morale. Se ci si dimentica del cuore della Legge, ovvero della sua natura di strumento per evitare la prevaricazione e aiutare gli uomini a vivere rettamente, e la si erge a riferimento assoluto e indiscutibile, si finisce con l’adorare la Legge come nuovo Dio e con il compiere il male stesso in suo nome. Anche Cristo se la prende con chi svuota la Legge del suo contenuto vero e ne applica la lettera in modo pedissequo, rigido e intransigente per i propri interessi umani:

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.

Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? E dite ancora: Se si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’aneto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni di ipocrisia e d’iniquità.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri![9]

Per concludere vorrei accennare al simbolismo che si riscontra nella lama numero VIII dei Tarocchi che della Giustizia prende il nome. Nel simbolismo di questa lama ritroviamo quanto detto in precedenza: la spada indica il potere della Giustizia, che deve essere però temperato dalla misura e dall’equità, rappresentate dalla bilancia. Inoltre la spada è verticale, puntata verso il cielo e non verso un ipotetico colpevole. Questo ci suggerisce che, come dice la Scrittura, il suo uso sia riservato a Dio. Oswald Wirth, nella sua opera sui Tarocchi, ci spiega l’importanza della Giustizia, che egli identifica con la Legge divina:

Senza di lei nulla può vivere, poiché gli esseri non esistono se non in virtù della legge alla quale sono sottomessi.[10]

E ci indica anche la connessione tra il simbolismo dei Tarocchi e quello massonico:

Per analogia con le colonne Jakin e Bohas del Tempio di Salomone, i pilastri del trono della Giustizia segnano i limiti della vita fisica: tra loro si estende il campo limitato dell’attività animatrice.[11]

Per il Wirth, inoltre, la Giustizia è anche equilibrio, armonia universale che, se rotta in qualche modo, si ristabilisce inesorabilmente:

Nella mano destra, la dea stringe, inoltre, una spada formidabile, che è la spada della fatalità, poiché nessuna violazione della legge rimane impunita. Non vi è vendetta: ma l’implacabile ristabilimento di ogni equilibrio infranto provoca prima o poi la reazione ineluttabile della Giustizia immanente, alla quale ci collega l’arcano VIII.

Ma lo strumento riparatore degli errori commessi è la Bilancia, le cui oscillazioni riportano l’equilibrio. Ogni azione, ogni sentimento, ogni desiderio influiscono sulla sua asta: ne derivano accumulazioni equivalenti che avranno ripercussioni fatali, in bene o in male. Le energie messe in gioco si capitalizzano; quelle che procedono da una bontà generosa arricchiscono l’anima, poiché colui che ama si rende degno di essere amato. Le simpatie sono più preziose di tutte le ricchezze materiali: nessuno è più povero dell’egoista che rifiuta di darsi psichicamente. Dobbiamo saper donare, per essere ricchi.[12]

Infine, facciamo notare che il numero VIII, che corrisponde alla lama della Giustizia, è, per Martinez de Pasqually, il numero dello “Spirito doppiamente forte appartenente al Cristo”. Che non sia una coincidenza appare evidente.

Enrico Proserpio

[1] Nel Rito Scozzese Rettificato non si parla di “Iniziazione” ma di “Ricevimento”. Essendo tale Rito di matrice cristiana, si ritiene che il recipiendario sia già stato introdotto sulla Via col Battesimo. Egli quindi è già “iniziato” e col Ricevimento in Loggia prosegue il suo percorso su un livello nuovo e più approfondito.

[2] Martinez de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L, 2003, pagina 38.

[3] Vangelo secondo Luca, capitolo 12, versetti 1 – 3, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Deuteronomio, capitolo 1, versetti 16 – 17, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[5] Proverbi, capitolo 20, versetto 23, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Proverbi, capitolo 20, versetto 22, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[7] Lettera ai Romani, capitolo 12, versetti 17 – 19, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[8] Lettera ai Romani, capitolo 12, versetti 20 – 21, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[9] Vangelo secondo Matteo, capitolo 23, versetti 13 – 32, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[10] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 2002, pagina 166.

[11] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 2002, pagina 166.

[12] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 2002, pagine 168 – 169. Corsivi originali.

Il significato della colonna spezzata e della scritta “adhuc stat”

Il quadro con la colonna spezzata e la scritta “adhuc stat”.

Nelle Logge di Rito Scozzese Rettificato, in grado d’Apprendista, si trova un quadro con l’immagine di una colonna spezzata, eretta sulla sua base, con la scritta “adhuc stat”, che potremmo tradurre con “ancora in piedi”.

Quest’immagine è una delle più emblematiche di tale Rito e vale dunque la pena di comprenderne meglio i significati.

Il Rito Scozzese Rettificato deriva dalla Stretta Osservanza Templare, la quale si riproponeva la ricostituzione dell’Ordine del Tempio. Nella Stretta Osservanza quest’immagine rappresentava proprio l’Ordine Templare, che, seppur ufficialmente abbattuto (la colonna spezzata), ancora resiste e lavora per tornare a splendere (il fatto che la colonna sia ancora in piedi).

Con l’avvento di Jean-Baptiste Willermoz, portatore delle dottrine di Martinez de Pasqually e dell’Ordine degli Eletti Cohen dell’Universo, l’emblema della colonna spezzata si arricchisce di un nuovo e più profondo significato.

Per comprenderlo dobbiamo partire dal racconto martinezista sulla creazione e sulla caduta di Adamo, così come sono narrati nel “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”.

In principio tutto esisteva in potenza nella mente di Dio. Nulla però era ancora stato creato, o, meglio, emanato dal Creatore. Prima che il tempo esistesse, Dio emanò i Primi Spiriti, da lui separati. Essi erano in intima connessione col Creatore e il loro compito era quello di esercitare un culto spirituale al Creatore, attraverso le leggi che Dio stesso aveva stabilite. Tali leggi sono eterne e inviolabili.

A questi Primi Spiriti era stato dato anche il libero arbitrio, caratteristica necessaria affinché essi potessero agire. Infatti:

[ … ] non si può loro rifiutare il libero arbitrio con il quale sono stati emanati, senza distruggere in essi la facoltà, la proprietà e la virtù spirituale e personale che loro erano necessarie per operare con precisione nei limiti in cui dovevano esercitare la loro potenza.[1]

Ed essi erano pienamente coscienti delle leggi divine:

Questi primi capi avevano una conoscenza perfetta di ogni azione divina, poiché erano stati emanati dal seno del Creatore solamente per essere testimoni di fronte a tutte le sue operazioni divine ed alla manifestazione della sua gloria.[2]

Eppure alcuni di essi non seppero rimanere all’interno delle leggi e del loro ruolo, ma si vollero ergere a creatori:

Il loro crimine fu d’aver voluto condannare l’eternità divina; in secondo luogo, d’aver voluto limitare l’onnipotenza divina nelle sue operazioni di creazione e, in terzo luogo, d’aver portato i loro pensieri spirituali fino a voler essere creatori delle cause terze e quarte ch’essi sapevano innate nella onnipotenza del Creatore [ … ].[3]

Appena il pensiero della prevaricazione comparve negli Spiriti, il Creatore ne fu consapevole. Ciò nonostante egli non poteva eliminare tale volontà senza violare le leggi eterne da lui stesso stabilite. La prevaricazione quindi ebbe luogo, ma Dio evitò che essa potesse giungere al suo fine, imprigionando gli Spiriti perversi nella prigione del mondo materiale. Essi non persero la loro natura e le loro potenzialità, ma ne persero l’utilizzo in virtù della loro prevaricazione.

Per controllare gli Spiriti perversi e governare la loro prigione materiale, Dio emanò un altro essere: Adamo. A lui il Creatore diede i poteri necessari al suo compito e promise di rendere efficaci le sue operazioni. Dio concesse ad Adamo la conoscenza dei suoi pensieri, delle sue volontà e gli diede la facoltà di operare e comandare sul particolare (il potere sulle creature terrestri) sul generale (il potere sulla terra stessa) e sull’universale (il potere sull’universo creato). Il Creatore fece sì che Adamo compisse queste tre operazioni (comandare al particolare, al generale e all’universale) in modo che, con esse, ricevesse la legge, il precetto e il comandamento. Con questo, Adamo aveva tutto ciò che gli era necessario per compiere il suo ruolo. Anche Adamo, come gli Spiriti Primi, aveva il libero arbitrio, necessario per le sue azioni e operazioni. Questo non significa che egli avesse facoltà di violare le leggi divine o disobbedire ai comandamenti del Creatore, ma solo che egli era libero di operare secondo il suo arbitrio per realizzare la sua opera.

Contemplando le opere fatte con le sue tre operazioni (quella particolare, quella generale, quella universale), Adamo si sentì grande e desiderò di aumentare la sua conoscenza dei pensieri del Creatore. Ma egli non poteva percepirli se non col consenso del Creatore stesso. Non potendo, quindi, approfondire la comprensione delle proprie operazioni per suo conto, Adamo finì con l’essere preso da pensieri disordinati. Tali pensieri furono percepiti e compresi anche dagli Spiriti perversi, che ne approfittarono.

Uno degli Spiriti perversi si presentò ad Adamo, sotto una forma gloriosa e luminosa, e lo invitò a usare il suo potere per i propri scopi e non per quelli del Creatore. Adamo cadde, in conseguenza del turbamento dato dai discorsi dello Spirito perverso, in uno stato di estasi animale, durante il quale il tentatore riuscì a insinuare in Adamo il suo pensiero malvagio.

Al suo risveglio, Adamo decise di compiere una quarta operazione, contraria alla volontà del Creatore:

Adamo operò dunque il pensiero demoniaco facendo una quarta operazione, nella quale usò tutte le parole potenti che il Creatore gli aveva trasmesso per le sue tre prime operazioni, sebbene avesse interamente rigettato il cerimoniale di queste stesse operazioni. Egli fece uso, con preferenza, del cerimoniale che il demonio gli aveva insegnato, come pure del piano che ne aveva ricevuto per attaccare l’immutabilità del Creatore. Adamo ripeté ciò che i primi spiriti perversi avevano concepito d’operare, per divenire creatori a scapito delle leggi che l’Eterno aveva loro prescritto per servire loro da limiti nelle loro operazioni spirituali divine. Questi primi spiriti non dovevano nulla concepire né intendere in materia di creazione, essendo solamente creatori di potenza, Adamo non doveva aspirare più che essi a questa ambizione di creazione d’esseri spirituali che gli fu suggerita dal demonio.[4]

Come fu per la prevaricazione degli Spiriti perversi, anche per Adamo, il Creatore non impedì le sue azioni, rispettando il suo libero arbitrio.  L’operazione di Adamo ne determinò però la caduta ed egli fu imprigionato in quello stesso mondo materiale di cui doveva essere il carceriere.

La colonna del quadro rappresenta, quindi, lo stato di Adamo, il quale dallo stato originario e glorioso (la colonna integra) è decaduto in uno stato di inferiorità e di privazione (la colonna spezzata).

Molto importante è però il fatto che la colonna sia ancora in piedi, nonostante tutto. Questo rappresenta la speranza e la possibilità della reintegrazione, del ritorno allo stato di grazia originario. L’uomo, infatti, mantiene tutte le potenzialità anche se i suoi poteri originali gli sono negati a causa della prevaricazione e della caduta.

Inoltre, anche se il collegamento col Creatore non è più diretto, ma deve essere mediato, esso permane. L’uomo, nel momento stesso della sua prevaricazione e caduta, si è reso conto del suo errore, a differenza dei Primi Spiriti perversi. Il suo pentimento non ha evitato la caduta e la punizione in questo mondo, ma ha fatto sì che Dio si riconciliasse con lui e gli desse la possibilità di compiere un percorso di reintegrazione. Pur nelle epoche più oscure della storia, Dio fa sì che permanga un resto di uomini giusti, depositari della retta via verso la reintegrazione. A questo si riferisce il profeta Geremia:

Da lontano gli è apparso il Signore:

«Ti ho amato di amore eterno,

per questo ti conservo ancora pietà.

Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata,

vergine di Israele.

Di nuovo ti ornerai dei tuoi tamburi

e uscirai fra la danza dei festanti.

Di nuovo pianterai vigne sulle colline di Samaria;

i piantatori, dopo aver piantato, raccoglieranno.

Verrà il giorno in cui grideranno le vedette

sulle montagne di Èfraim:

Su, saliamo a Sion,

andiamo dal Signore nostro Dio»

Poiché dice il Signore:

«Innalzate canti di gioia per Giacobbe,

esultate per la prima delle nazioni,

fate udire la vostra lode e dite:

Il Signore ha salvato il suo popolo,

un resto di Israele».[5]

E San Paolo di Tarso nella sua lettera ai Romani:

Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin dal principio. O non sapete forse ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele?

Signore, hanno ucciso i tuoi profeti,

hanno rovesciato i tuoi altari

e io sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita.[6]

Cosa gli risponde però la voce divina?

Mi sono riservato settemila uomini, quelli che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal.[7]

Così anche al presente c’è un resto, conforme a un’elezione per grazia. E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia.[8]

Proprio l’accenno alla grazia della lettera ai Romani ben spiega il concetto: anche nel buio del mondo spirituale il Creatore mantiene sempre accesa una Luce della sua grazia, della sua benedizione, affinché chi desideri lavorare per la propria reintegrazione possa trovare gli strumenti necessari. A questo si riferiscono quindi la colonna spezzata e la scritta “adhuc stat”.

L’”adhuc stat” è uno dei più importanti simboli del Rito Scozzese Rettificato. Esso rappresenta al contempo il ricordo della caduta dell’uomo, che rende necessario il Lavoro per la reintegrazione, la facoltà dell’uomo di riuscirvi, la sua speranza e l’alleanza col Creatore, che nonostante le colpe dell’umanità, mantiene sempre un resto della sua grazia per Adamo e la sua discendenza.

Enrico Proserpio

[1] Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 27.

[2]Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagine 28 – 29.

[3]Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 30.

[4]Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 35.

[5] Libro di Geremia, capitolo 31, versetti 3 – 7, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Riferimento al Primo libro dei Re, capitolo 19, versetti 10 – 14.

[7] Riferimento al Primo libro dei Re, capitolo 19, versetto 18.

[8] Lettera ai Romani, capitolo 11, versetti 2 – 6, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002. I corsivi sono presenti nel testo originale.