L’eggregore

Maestro Venerabile, Primo e Secondo Sorvegliante, Maestri, Compagni, Apprendisti, Fratelli: mi accingo per la prima volta a presentare presso questa rispettabile Loggia, la mia prima tavola su un argomento complesso e delicato come le Eggregore. Chiedo fin d’ora venia e comprensione per le imprecisioni ed eventuali errori che si potranno riscontrare durante la mia esposizione, consapevole in ogni caso del fatto che molto ancora ho da apprendere ed imparare, ma nel contempo certo del Vostro autorevole supporto per lavorare quella pietra grezza che un giorno spero e desidero, possa diventare testata d’angolo.

Un piccolo cenno sull’origine del termine eggregora.

Il termine eggregore, eggregora, forma-pensiero, è una parola che nel vocabolario di lingua italiana non esiste: essa deriva specificatamente dal greco antico ἐγρήγορος il cui significato originario sta per “guardiano”.

Tale termine assume connotazioni diverse a seconda dell’ambito in cui viene considerato: nell’occultismo ad esempio, essa sta ad indicare una entità priva di corpo fisico e quindi di materia, che viene generata da uno o più soggetti, la quale risulta poi in grado di influenzare in modo più o meno accentuato i loro stessi pensieri, attitudini, modi di agire. Quando essa, l’eggregora, viene generata mediante particolari metodi di meditazione e/o rituali allora viene definita più specificatamente con il termine di eggregora o egregore; quando invece tale eggregora viene generata, determinata, in modo inconsapevole, involontario e soprattutto da pensieri ossessivi, allora viene definita in modo più specifico come forma-pensiero: in questo secondo caso ci si trova ad operare soprattutto in ambito esoterico e la componente negativa di tali forme pensiero assume una chiara connotazione negativa per il soggetto tanto da diventare un parassita dello stesso soggetto che l’ha generata sottraendogli quindi, energia vitale.

L’equivalente latino di tale termine può essere associato alla parola egregius, che significa «notevole», «illustre», «eccezionale»; questa seconda derivazione è molto importante da sottolineare per i motivi che verrano specificati successivamente; basti solo pensare al fatto che dalla terminologia greca deriva il termine di “grigori” ovvero quegli angeli o demoni che, caduti sulla terra, generarono accoppiandosi con le donne terrestri, quella razza di giganti chiamati Nephilim: i giganti, esseri straordinari, eccezionali, notevoli. Ecco quindi come l’associazione della terminologia greco-latina a mio avviso abbia generato il suddetto termine di egregore (egregius – grigori). Concettualmente ci si rifà quindi a qualcosa di eccezionale, soprannaturale, mitologico e mitico, sovraumano.

Si deve tuttavia ad Eliphas Levi il concetto ermetico esoterico della parola egregore intesa invece come forma-pensiero collettiva, ovvero generata in seguito ad un pensiero collettivo opportunamente indirizzato da motivazioni di vario genere e natura (religiosa, iniziatica, esoterica ecc.); quest’ultima interpretazione è stata tuttavia ampiamente contestata da Renè Guenon che non vedeva alcunchè di spirituale in quella terminologia ma interpretando la fenomenologia della stessa come una semplice emanazione della psiche individuale in un ambito più propriamente collettivo. Egli riteneva infatti che l’eggregora può essere creata intenzionalmente al fine di indirizzare l’energia psichica, mediante rituali appositi: tuttavia tale operazione assumeva una connotazione degna di importanza solo se supportata da organizzazioni spirituali, religiose od iniziatiche aventi come obiettivo quello di apportare al gruppo qualità superiori che possano trascendere la sfera puramente materiale e fisica.

Pur avendo visioni opposte riguardo l’origine, la genesi della formazione dell’eggregora, è interessante notare come entrambe intuiscano che l’essere umano, vuoi singolarmente, vuoi in un contesto collettivo di partenza possa avere questa facoltà, questa capacità di poter generare un qualcosa di “immateriale” che lo connetta con una sfera superiore, con quelle “energie sottili”, che possono essere percepite al di là della comune esperienza sensoriale materiale.

E’ solo con Annie Besant e Charles Webster Leadbeater, principali esponenti del movimento teosofico, che a mio avviso la forma-pensiero viene più puramente intesa come una vera e propria vibrazione che, emanata per non dire prodotta dal singolo o da un collettivo di individui, finisce per diventare autonoma essa stessa, in una sorta di vita propria, che oltretutto continua per così dire ad “alimentarsi” degli stessi pensieri della/e persone che l’hanno generata! In tale modo è come se la forma pensiero una volta generata vivesse non solo di vita propria ma prendesse il sopravvento sopra il suo stesso “creatore” determinandone il suo proprio completo assoggettamento inducendo lo stesso ad una continua produzione di quei pensieri che sono indispensabili alla forma pensiero stessa per poter sopravvivere nel tempo.

Una cosa che mi ha sempre fatto meditare, durante i nostri lavori, guardando il tappeto di Loggia, è il fatto che esso rappresenta una summa di tutti quei simboli che rappresentano i nostri strumenti per raggiungere la perfezione dell’opera! Tra tutti questi simboli, sembra apparentemente che ne manchi uno: ciò è solo apparentemente vero dal momento che ciò che sembra mancare, in realtà, è ciò che a mio modestissimo parere, li comprende tutti, e questo è proprio l’Eggregora.

Ho individuato pertanto tre elementi fondamentali che durante ogni tornata, sono necessari per “creare” prima ed espandere poi tale eggregora: la presenza del Maestro/i, il rituale dei lavori di loggia, i simboli. Ciascuno di essi non può esistere di per sé ma oserei dire che è interdipendente dagli altri ovvero, esiste un intimo legame tra di essi, senza il quale l’eggregora stessa non potrebbe essere generata e di conseguenza la pietra grezza non potra’ mai diventare testata d’angolo.

Il Maestro/i, illuminato dal Grande Architetto dell’Universo, mediante l’esecuzione del rituale in loggia, attiva tutti quei simboli che, come una chiave in una serratura, sono in grado di aprire quel portale che ci consente di poterci connettere con quel mondo superiore, quel mondo soprasensibile, indispensabile per iniziare ad avviare l’opera di rinnovamento e di sgrossamento di quella pietra che dovrà diventare sempre più perfetta nelle sue forme per assolvere al suo perfetto compito.

Tale manifestazione eggregorica, è in grado di catalizzare e portare all’unisono tutti i fratelli, in una sorta di risonanza comune e perfetta, tale da avviare, anche inconsapevolmente, quel lavorio interiore che porta inevitabilmente a modificare nel tempo il nostro io, liberandolo da una forma egoistica ed egocentrica, ad una forma di coscienza collettiva.

L’ eggregora è quindi quel simbolo di loggia che potremmo definire immateriale ma che pur tuttavia ha la stessa equipollenza di tutti gli altri simboli necessari ed indispensabili durante i lavori di loggia stessi.

L’ eggregora inoltre, dobbiamo sottolineare, non è un qualcosa di esclusivo appannaggio di una particolare associazione, professione religiosa, gruppo; essa è insita, come una sorta di muro portante, in qualsivoglia forma di aggregazione umana che voglia anelare ad un livello di pensiero superiore: tanti riti e ritualità possono essere considerati, ma quello dove intravedo una particolare espressività della fenomenologia eggregorica, sono il rito Scozzese Rettificato (che sto lentamente imparando) ed i riti religiosi. Nel primo, soprattutto in maniera forse più evidente che nei secondi, si percepisce quella sequenzialità nella rivelazione e disvelazione delle formule che porta alla creazione dell’eggregora che con una modalità effettuativa magica, apre, attivando i simboli, il/i portale/i che consentono agli adepti un vero e proprio passaggio ad un’altra dimensione. Mi pongo quindi la domanda: noi siamo l’eggregora? Ovvero, l’eggregora è un momento di nostra trasformazione corporea?

Edgardo Marziani

Considerazioni sui viaggi del candidato durante il Ricevimento al primo grado

La cerimonia di Ricevimento al grado di Apprendista del Rito Scozzese Rettificato prevede che il candidato compia, bendato e condotto per mano dal Secondo Sorvegliante, tre viaggi simbolici attorno al tempio.

Ogni viaggio porta il recipiendario a passare uno degli stadi successivi del percorso iniziatico del Rettificato, a incontrare un elemento e a ricevere una massima morale nell’ordine evidenziato nello schema sottostante.

Primo viaggio:

  • Elemento: fuoco;
  • Stadio: cercante;
  • Massima: “L’uomo è l’immagine immortale di Dio, ma chi potrà riconoscerla se egli stesso la sfigura?”.

Secondo viaggio:

  • Elemento: acqua;
  • Stadio: perseverante;
  • Massima: “Colui che arrossisce della religione, della virtù e dei suoi Fratelli è indegno della stima e dell’amicizia dei Massoni”.

Terzo viaggio:

  • Elemento: terra;
  • Stadio: sofferente;
  • Massima: “Il Massone il cui cuore non si apre ai bisogni e all’infelicità degli altri uomini è un mostro nella società dei Fratelli”.

Per quanto riguarda i tre stadi, essi prefigurano il percorso dei primi tre gradi. Ogni grado dell’Ordine, infatti, corrisponde a uno di essi, che ne costituisce, per così dire, l’essenza:

  • Apprendista: cercante;
  • Compagno: perseverante;
  • Maestro: sofferente.

L’Apprendista è descritto come “cercante”, poiché si è appena rivolto alla Loggia per iniziare il suo percorso ed è tutto intento alla ricerca della sua via. Non tratteremo qui gli altri due stadi, poiché ineriscono a gradi superiori. Nel Ricevimento al primo grado essi sono solo citati, come anticipazione di ciò che verrà e che si affronterà più avanti.

Discorso più complesso è quello che riguarda gli elementi e il loro collegamento con i viaggi. Si sarà certamente notato che il riferimento è a soli tre elementi (fuoco, acqua, terra) e non a quattro. Il sistema simbolico del Rettificato, infatti, considera solo questi tre. L’aria non vi è compresa, ma è ritenuta come derivante dagli altri tre elementi. Troviamo qui un’altra unicità del nostro Rito all’interno dell’alveo della Massoneria: gli altri Riti massonici che fanno riferimento agli elementi durante l’Iniziazione, si riallacciano al simbolismo ermetico che ne considera quattro. Si tratta solamente di un differente modo di rappresentare la realtà e non di una differenza sostanziale, come già diceva Saint-Martin in una lettera a Kirchberger:

[…] è possibile che ogni scrittore su questa materia possa aver attinto dalla sorgente, ma che tutti si esprimano differentemente. L’unico modo per superare il linguaggio è quello di considerare i principî. Per esempio, leggo ogni giorno in Jacob Böhme che vi sono quattro elementi; ma io sono geometricamente, numericamente, e metafisicamente certo che ce ne siano solo tre. Questo non impedisce di comprenderci, perché vedo che la nostra differenza è solo nel linguaggio.[1]

L’origine del simbolismo dei tre elementi non è certa. Vi si può vedere una certa influenza ebraica e qabbalistica, ma solo lontana e “riadattata”. Nel “Libro della Formazione” (Sepher Jetsirah), uno dei testi qabbalistici più antichi, si parla di tre elementi costituenti la materia, ma essi sono fuoco, aria, acqua. Se il simbolismo martinezista viene da qui (il che è possibile, viste le origini ebraiche del filosofo francese), esso si è modificato nell’adattarsi al nuovo sistema e delle sue origini ha conservato solamente il numero degli elementi.

Facciamo notare il riferimento alla certezza “geometrica” che il Saint-Martin esprime nella lettera sopra citata: egli fa riferimento alla dottrina martinezista, che vedeva nel triangolo equilatero la forma simbolica del “tempio generale terrestre”[2], ovvero di questa terra. Un discorso che si fa ancor più necessario quando ci si riferisce ai punti cardinali, così come sono concepiti e collegati agli elementi nella dottrina di Martinez de Pasqually. Il triangolo terrestre ha tre vertici, corrispondenti a tre “direzioni” o punti cardinali (Nord, Sud, Ovest), collegati ai tre elementi secondo lo schema qui sotto riportato:

  • Nord: acqua;
  • Sud: fuoco;
  • Ovest: terra.

Si noterà, però, che nel tempio e sul tappeto di Loggia si vedono rappresentati i quattro soliti punti cardinali e non solamente i tre dello schema martinezista. Non si tratta di una contraddizione, ma di una questione di diversi livelli di esistenza: i quattro punti cardinali del tappeto di Loggia indicano il nostro mondo materiale, nel quale viviamo e operiamo. I tre vertici del triangolo martinezista rappresentano invece un livello spirituale che come tale va interpretato e compreso.

Nel momento in cui il candidato tocca l’elemento che si trova alla fine del suo viaggio, il Fratello Introduttore, che lo segue per tutta la parte della cerimonia di Ricevimento che si svolge nel tempio, pronuncia un motto che accenna al simbolismo dell’elemento stesso, mostrandone il duplice aspetto di utile strumento e di pericolo a seconda dell’uso che se ne fa.

Ecco i tre motti:

  • Il fuoco consuma la corruzione, ma divora l’essere corrotto;
  • È attraverso la dissoluzione delle cose impure che l’acqua lava e purifica, ma essa cela le loro influenze funeste e i principi della putrefazione;
  • Il grano messo nella terra vi riceve la vita, ma se il suo germe è alterato, la terra ne accelera la putrefazione.

È innegabile una certa influenza ermetica sulla stesura di questi motti. Il richiamo alla putrefazione e alla necessità di purificazione non lasciano dubbi. Anche qui, però, si tratta di un’influenza adattata al sistema simbolico del Rettificato e non un inserimento di elementi alchemici ed ermetici tout court.

Le tre massime che il Maestro Venerabile pronuncia dopo ogni viaggio sono in apparenza semplici motti morali, ma sono in realtà concetti fondamentali che dovrebbero guidare la vita del Massone rettificato.

La prima invita il candidato (e tutti i Fratelli con lui) a non “sfigurare” col vizio l’immagine di Dio che l’uomo è. In essa si trova anche un riferimento chiaro, benché non approfondito, al concetto di uomo creato a “immagine e somiglianza” di Dio, che possiamo vedere come un ulteriore invito a studiare la religione cristiana e le Scritture.

La seconda avverte che nessun percorso spirituale può essere portato avanti se ci si vergogna del percorso stesso e dei propri compagni di strada. È necessario che il Massone sia ben convinto della via che ha intrapreso, o meglio farebbe a fermarsi.

La terza fa invece riferimento al dovere di “beneficienza”, ovvero al dovere che ogni Massone ha di lavorare al miglioramento dell’Umanità intera.

Speriamo di aver dato, con queste poche parole, qualche utile spunto di riflessione e approfondimento sul ricchissimo simbolismo del Rito Scozzese Rettificato.

Enrico Proserpio


[1] Questo brano della lettera a Kirchberger di Louis-Claude de Saint-Martin è citato, in una nota al testo, nella presentazione al libro “L’uomo di desiderio”, nell’edizione Jouvence, Milano, 2015, pagina 8.

[2] Si veda Martinez de Pasqually, “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”, capitolo 69.

La camera di ritiro

La camera di ritiro o camera di preparazione è il primo luogo con cui il candidato viene a contatto una volta che chiede, “bussando”, di essere iniziato alla Massoneria.

La camera di ritiro deve essere un luogo scuro, con finestre ben chiuse e lontano dalle camere più importanti della Loggia. Disposto in tale modo per poter difendere il candidato da distrazioni esterne che deve ignorare. La sacralità della stanza sarà ben custodita da un Fratello Guardiano.

L’illuminazione del locale viene data da una lampada, o un candeliere, posati su una scrivania. Una luce fioca che permette al candidato di osservare alcuni oggetti.

In ordine sono presenti:

  • Un quadro con lettere gialle su sfondo nero;
  • Un quadro con una testa di morto sopra a due ossa incrociate di colore argento su sfondo nero e delle istruzioni;
  • Una Bibbia con l’antico e il nuovo testamento;
  • Un quadro contenente delle sentenze;
  • Un campanello per chiedere aiuto, se necessario;
  • Un foglio con scritte le tre domande preparatorie, le cui risposte formeranno il testamento;
  • Un portaoggetti dove riporre metalli e gioielli del candidato;
  • Una brocca piena d’acqua;
  • Una benda nera.

Nel primo quadro il candidato troverà su sfondo nero delle riflessioni di colore giallo. Esse sono volte a far meditare con particolare attenzione alle seguenti tematiche: non credere di essere soli nella solitudine in cui ci si trova; ritirarsi in se stessi per vedere se esiste un essere al quale dobbiamo l’esistenza e la vita; cercare di riavvicinarsi a questo essere superiore, desiderandolo e sottomettendoci alle sue leggi; che per raggiungere questo traguardo felice bisogna essere disposti a compiere un lavoro penoso e sofferto; di prendere coraggio, perché queste pene saranno passeggere e la ricompensa assicurata; che la giustizia pretende questo duro lavoro scegliendo bene e considerando lo stato miserabile e tenebroso in cui ci si trova e la luce che ci viene promessa. Se si decide di dedicarsi generosamente a questo difficile percorso ci verrà data una guida fidata che ci proteggerà dai pericoli.

Il secondo quadro simboleggia la morte del profano. Cerca di insegnargli a spogliare il “vecchio uomo” e prepararlo a una nuova nascita spirituale, a una trasmutazione. Sopra la testa di morto c’è scritto: “Tu ti sei sottomesso alla morte” mentre sotto le ossa: “La vita era contaminata, ma la morte ha riparato la vita”.

La Bibbia è posta per essere studiata con cura, far propria la dottrina e le verità che offre per fortificare gli uomini. La Bibbia verrà poi usata in diversi momenti specifici durate il Ricevimento.

Su alcuni fogli sono presenti le seguenti sentenze: “Se la curiosità ti ha condotto qui, vattene”, “Se la tua anima ha provato spavento, non andare oltre” e “Se perseveri, sarai purificato dagli elementi, uscirai dall’abisso delle tenebre, vedrai la luce”. Nel rito Scozzese Antico e Accettato troviamo anche la parola “VITRIOL” che significa “Visita l’interno della terra e, rettificando, troverai la pietra occulta” ed è un invito alla ricerca della stessa anima nel silenzio e nella meditazione. Si potrebbe descrivere questo cambiamento di stato con una metafora: dalla decomposizione di un guscio di crisalide in sonno uscirà una meravigliosa farfalla.

Le tre domande preparatorie sono volte a far raccogliere il candidato in sé stesso per rispondere sinceramente, farsi ammettere e illuminare dall’ordine massonico. Da un punto di vista filosofico le tre domande dovrebbero essere queste: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” da cui si può ritrovare il ternario “passato, presente e futuro”.

La prima domanda chiede se crediamo nell’esistenza di un Dio creatore e cosa pensiamo della religione Cristiana. La seconda invece chiede che idea abbiamo della virtù (virtù considerata nei rapporti che abbiamo con Dio e la religione, con noi stessi e gli altri). La terza si riferisce alla nostra opinione sui veri bisogni degli uomini e come possiamo esser loro più utili.

Rispondere a queste domande non è per niente semplice poiché esse costituiranno il testamento del candidato che dovrà testimoniare le proprie intenzioni filosofiche perché, come dice Louis Claude de Saint Martin, l’uomo è il vero tempio e possiede in sé stesso i candelabri, l’altare sacrificale, i profumi e le offerte, l’ara e il fuoco[1].

Il portaoggetti è necessario per l’introduzione del candidato in Loggia. Egli dovrà spogliarsi di tutti i metalli, del denaro e dei gioielli poiché si dice che i metalli possano impedire il flusso delle correnti magnetiche. Tale movimento simbolico è volto a insegnare che tutto si paga al mondo e per poter ricevere si deve prima dare: deve essere un abbandono delle idee preconcette dato che proprio i metalli rappresentano le cose che brillano di una luce ingannevole, che è una ricchezza illusoria della quale un saggio non si cura.

I metalli verranno restituiti una volta che il candidato avrà effettuato tutto il percorso e ricevuto finalmente la luce.

La via iniziatica conduce all’illuminazione e, per fare questo, il candidato troverà una benda, possibilmente di colore scuro, nero. Si pensa che la benda sia uno dei simboli elementari ma, in realtà, è uno dei più profondi della Massoneria: il candidato dovrà acconsentire a indossarla per poter procedere all’ingresso in Loggia poiché, essendo stato nelle tenebre, dovrà fidarsi del Sorvegliante, che è colui che cammina nella luce e gli permetterà di non smarrirsi. Non dobbiamo mai dimenticare che, una volta caduta la benda dagli occhi, la luce è alla fine del cammino. 

Leggendo un’opera del rituale di iniziazione mi piace riprendere uno spunto che condivido con voi: “A tutta questa serie di simboli psicologici si aggiunge la scoperta di un nuovo mondo fatto di simboli prettamente esoterici che il profano non conosce. Tra le varie fasi ammonitrici dipinte sul muro, una lo avverte che se persevererà sarà purificato, verrà fuori dall’abisso delle tenebre e verrà la luce. In questa frase si riassume e anticipa tutto ciò che il recipiendario si appresta a vivere. La luce a cui si fa riferimento non è ovviamente la luce solare, ma un’allegoria della capacità di vedere il mondo con nuovi occhi, perché la materia prima su cui l’apprendista libero muratore dovrà costantemente lavorare per trasformare i suoi vizi in virtù è la sua stessa mente/anima che dovrà raggiungere uno stato di consapevolezza superiore risvegliandosi a un nuovo livello di coscienza”.

Ricordo che al mio Ricevimento cercavo di dare una spiegazione a tutta questa preparazione. Da profano era difficile comprendere, ma pian piano, mattone dopo mattone, riesco a trovare delle risposte anche se so bene che nonostante questo per poter raggiungere quello stato di conoscenza la strada è infinita.

Andrea B.


[1] Si veda Juole Boucher, “La simbologia massonica”, edizioni Atanòr, Roma, 2003, pagina 32.

La fratellanza nella Libera Muratoria

La fratellanza è, senza ombra di dubbio, uno dei valori cardine della Libera Muratoria, quale che sia il Rito preso in considerazione. Poiché, però, apparteniamo al Rito Scozzese Rettificato, cercheremo di declinare la questione in considerazione del suo simbolismo e della sua dottrina. Partiremo, quindi, da Martinez de Pasqually e Sant’Agostino per poi analizzare la questione con l’ausilio del prezioso scritto di Sant’Aelredo di Rievaulx intitolato “De spiritali amicitia[1].

Partiamo dunque dal mito della caduta di Adamo, il quale, come abbiamo visto nella tavola sull’”Adhuc stat”, è centrale nella simbologia del Rettificato e particolarmente in quella del primo grado. Adamo disobbedisce agli ordini di Dio e, tentato dagli spiriti perversi che avrebbe dovuto dominare, cerca di creare una sua creatura attraverso un’operazione disordinata e blasfema. Egli così si sporca e si contamina e precipita nel mondo perdendo quello stato di gloria che gli era proprio e, con esso, il contatto diretto col Creatore.

Questo mito adombra un concetto importante: l’unione di tutti gli esseri umani in un solo grande essere spirituale (l’Adam Qadmon della Qabbalah) di cui ognuno è parte. Anche Sant’Agostino ipotizza che possa essere così, il che renderebbe tutti gli esseri umani in qualche modo colpevoli:

[…] se è stata creata una sola anima, da cui sono derivate quelle di tutti gli uomini che nascono, chi può dire di non aver peccato quando il primo ha peccato?[2]

Adamo, dopo aver peccato, comprende subito il suo errore e, per questo, Dio gli dà la possibilità della riconciliazione e della reintegrazione nel suo stato di gloria. Fin da subito Dio fa sì che nel mondo vi siano segni del futuro a venire, utili al progresso spirituale dell’uomo. Gli eventi, le persone, perfino le cose divengono così dei “tipi”, delle rappresentazioni sia degli eventi passati che delle promesse future. Ecco un esempio tratto dal “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”: secondo la narrazione di Martinez de Pasqually, Dio mandò un suo emissario per istruire Adamo ed Eva, spiegando loro il significato della nascita e morte di Abele:

Il Creatore vi dice per mezzo della mia parola che voi non avete l’uno e l’altra prodotto questa posterità di Abele se non per essere il vero tipo di colui che verrà in un tempo per essere il vero e l’unico riconciliatore di tutta la posterità d’Adamo.[3]

Abele, quindi, diviene “tipo” del Cristo, che, come lui, nascerà e morirà per i peccati dell’Umanità.

La fratellanza massonica è dunque l’unione di tutti gli esseri umani? Essa coincide con la fratellanza umana? La risposta è no. L’essere umano, parlando in generale, oggi non ha ancora uno stato di evoluzione spirituale sufficiente a renderlo consapevole di questa profonda unione tra gli individui e per questo si rende ancora necessaria l’esistenza di persone dedite alla ricerca spirituale in vista della reintegrazione. I Liberi Muratori sono senza dubbio tra queste. Tra i Liberi Muratori c’è un legame particolare, frutto di una comune Iniziazione e di un comune fine. E anche se non tutti coloro che sono stati ricevuti in una Loggia sono in grado di percepirne il profondo significato e la profonda potenza, tale legame lavora in essi affinché la fratellanza massonica divenga il tipo di quella umana che verrà e i Massoni possano divenire quell’esempio di virtù e di alta spiritualità che dovrebbero essere.

Per approfondire il concetto di fratellanza massonica, come abbiamo accennato, ci rifaremo al “De spiritali amicitia” di Sant’Aelredo di Rievaulx. L’autore tratta dell’amicizia più profonda e spirituale, che è cosa ben diversa da quella comunemente intesa e possiamo dire, senza tema di smentita, che l’”amicizia spirituale” di Aelredo è sostanzialmente lo stesso concetto della fratellanza massonica. L’unica differenza è il contesto: Aelredo parla del profondo rapporto che si instaura tra chi crede profondamente in Cristo e su lui fonda anche l’amicizia con gli altri esseri umani, noi invece trattiamo della fratellanza tra coloro che seguono la via latomistica. In entrambi i casi a sostegno dell’amicizia-fratellanza c’è un comune sentire e un’unione che viene anche dall’esterno (dall’eggregoro, direbbero certi esoteristi), che aiuta l’uomo a superare le difficoltà:

L’amicizia spirituale dunque viene generata dalla somiglianza di vita, di costumi e di aspirazioni tra persone buone […].[4]

Fondamentale è il fatto che le persone coinvolte siano “buone”. Non è vera amicizia (o fratellanza) se si è solidali nel vizio:

[…] si arrogano lo splendido titolo dell’amicizia quelli fra cui è in atto la connivenza nei vizi; poiché chi non ama non è amico; né ama sicuramente l’uomo chi ama l’iniquità. «Chi» infatti «ama l’iniquità» non ama, bensì «odia la propria anima». Ora, chi non vuole bene alla propria anima non può tanto meno amare l’anima altrui.[5]

Dove invece le intenzioni sono buone e il legame sincero:

Ove l’amicizia è così, là certamente esiste il «volere e non volere la stessa cosa», e tanto più dolce quanto più sincero, tanto più delizioso quanto più santo. Ove ci si ama così, non è possibile volere qualcosa di sconveniente, non volere ciò che è davvero utile.[6]

Perché l’amicizia spirituale è legata strettamente alle virtù (in particolare alle virtù cardinali, che sono importanti anche per il nostro Rito):

Tale amicizia è diretta dalla prudenza, retta dalla giustizia, custodita dalla fortezza e regolata dalla temperanza.[7]

Anche in Massoneria troviamo concetti molto simili. Ecco un breve stralcio del “Catechismo sulla solidarietà massonica” riportato nel libretto dei rituali di una delle maggiori Obbedienze italiane (di Rito Scozzese Antico e Accettato):

Domanda: Si dice che la Massoneria procuri, a coloro che vi si associano, vantaggi morali e materiali. Che cosa ne pensate?

Risposta: Tale asserzione non risponde alla verità dei fatti. Il profitto materiale è assolutamente escluso per chi appartiene alla Massoneria. Il vantaggio morale non può ricercarsi che nella fermezza del carattere che è una conseguenza dell’elevarsi ad alte idealità.

Domanda: Come potete ciò affermare? Non dovete voi favorire sempre ed in qualsiasi maniera i Fratelli dell’Ordine?

Risposta: No. Gli Statuti m’insegnano di essere umano, sincero, giusto. Se favorissi un Fratello, per la sola ragione che è Fratello, non sarei giusto.

E poco più avanti:

Domanda: Dato che sedeste in un consesso deliberante, in una carica pubblica, non conferireste la preferenza ad un Fratello, anziché ad un profano?

Risposta: Gli Statuti dell’Ordine e le Costituzioni mi obbligano di proteggere i Fratelli nel limite del giusto e dell’onesto. Non sarei giusto e molto meno onesto se preferissi con il voto il meno degno.

Ovviamente non possiamo pensare che ogni Massone provi sentimenti di tale profondità verso tutti i Fratelli. La fratellanza deve quindi essere vista come un fine da raggiungere, un ideale, un faro che deve guidare la nostra azione nei confronti degli altri Massoni e non solo. Inoltre, essa ci deve insegnare alla disponibilità nei confronti dell’altro, tanto nel fornire aiuto e consiglio quando necessario, quanto nel ricevere insegnamenti e correzioni che ci aiutino a sgrossare la nostra pietra grezza, per contribuire alla costruzione del Tempio celeste, di quella Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse di Giovanni che altro non è se non la reintegrazione dell’’Umanità nel suo stato di gloria.

Enrico Proserpio


[1] Il testo si trova facilmente, sia in edizioni cartacee che on line. Il titolo è solitamente tradotto come “L’amicizia spirituale” o “La perfetta amicizia”.

[2] Sant’Agostino, “Il libro arbitrio”, Città Nuova Editrice, Roma, 2019, pagina 235.

[3] Jacques Martinez de Pasqually, “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”, edizioni Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 91.

[4] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 67.

[5] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 59.

[6] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 67.

[7] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 67.

Considerazioni sull’esame dei profani che bussano alle porte del Tempio

Uno dei temi su cui la Massoneria attuale ha le idee meno chiare è quello dell’esame dei candidati a essere ricevuti, o iniziati (i bussanti). Tanto per cominciare, chiariamo una questione terminologica: il termine “tegolatura” viene usato, nel caso dell’esame dei candidati, in modo improprio. La tegolatura è l’esame dei Fratelli visitatori, che dovrebbe avvenire in modo rituale, chiedendo le parole e i toccamenti del grado. Per svolgere tale compito in alcuni Riti (come lo Scozzese Antico e Accettato) esiste un’apposita figura: il Tegolatore. Per l’esame dei candidati, invece, il Maestro Venerabile nomina ogni volta dei Maestri (tra i quali non dovrebbe essere incluso il Fratello che propone il candidato), i quali non dovranno sapere l’identità l’uno dell’altro e dovranno esaminare il candidato in maniera automa e indipendente. I Maestri incaricati scriveranno poi una relazione anonima che sarà letta in Loggia onde permettere ai Fratelli di avere gli elementi necessari a decidere se votare a favore, o contro, l’ammissione del candidato. I nomi dei Fratelli esaminatori devono essere sconosciuti alla Loggia per garantire che il giudizio dei Fratelli non sia influenzato da eventuali simpatie, o antipatie, nei confronti degli esaminatori. Per lo stesso motivo gli esaminatori dovranno essere sconosciuti l’uno all’altro.

Per dare i giusti elementi ai Fratelli, affinché possano decidere come votare, gli esaminatori dovranno chiarire con il candidato alcuni punti fondamentali:

  • Gli impegni e gli obblighi che l’appartenenza alla Loggia comporta;
  • La struttura della Massoneria, l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia e un quadro generale sulle altre Obbedienze;
  • Lo scopo del percorso libero-muratorio;
  • L’infondatezza di certe voci e dicerie sulla Massoneria;
  • I valori fondamentali della Libera Muratoria, ai quali il candidato, una volta ricevuto (o iniziato) dovrà allinearsi;
  • Alcuni accenni al Rito particolare che la Loggia pratica.

Nel caso delle Logge di Rito Scozzese Rettificato, gli esaminatori avranno cura di sincerarsi della fede cristiana del candidato e del suo essere stato battezzato. Quale sia la confessione del candidato (cattolico romano, ortodosso, protestante…) è irrilevante ai fini del Ricevimento e, quindi, dell’esame.

Entriamo più nel dettaglio dei temi elencati sopra.

Prima di tutto l’esaminatore dovrà illustrare al candidato quali saranno i suoi impegni e i suoi obblighi nei confronti della Loggia, ovvero la partecipazione alle Tornate (chiarendo l’entità di questo impegno, in quale giorno si riunisce la Loggia, quanto durano le Tornate…) e il pagamento delle capitazioni, l’importo delle quali dovrà essere detto chiaramente. In questo modo si eviterà che il candidato abbia da ridire sui costi, o si lamenti dicendo che non sapeva di dover pagare, o quanto fosse impegnativa la partecipazione alle Tornate.

È di primaria importanza anche spiegare al candidato la struttura della Massoneria, l’eventuale appartenenza della Loggia a un’Obbedienza e l’organizzazione, a grandi linee, della stessa. È fondamentale spiegare che l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia non è l’unica esistente e chiarire quali caratteristiche la differenziano dalle altre. Mi è capitato un bussante che aveva chiesto di entrare in Loggia credendo che essa appartenesse al Grande Oriente d’Italia (che pensava fosse l’unica Obbedienza italiana). Ricevere questo candidato sarebbe stata una perdita di tempo da parte sua e nostra. Altri invece preferiscono Obbedienze miste (che accettano cioè sia uomini che donne) a quelle unicamente maschili o femminili. Sarà quindi necessario mettere in chiaro se l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia è mista o meno. Se il candidato esprimesse la necessità di entrare in un’Obbedienza con caratteristiche differenti da quella a cui appartiene la Loggia, sarà un atto di gentilezza da parte dell’esaminatore l’indicargli eventuali altre Obbedienze più adatte alle sue esigenze.  

Altro punto fondamentale è chiarire quale sia lo scopo del percorso libero-muratorio e quale sia il modo in cui la Massoneria lo persegue. Deve essere chiaro che la Libera Muratoria è un Ordine che dà ai suoi membri il modo di seguire un percorso di tipo spirituale, volto a perfezionare se stessi e l’Umanità attraverso un sistema di simboli e ritualità che procede per gradi. A tal proposito è strettamente necessario smentire le voci su presunti complotti massonici o sul fatto che l’appartenenza massonica apra le porte per far carriera o per la scalata sociale. Capita spesso che delle persone facciano richiesta di entrare in Loggia per questi motivi materiali. Costoro potrebbero, qualora fossero accettati, essere un pericolo per la salute della Loggia, essendo portatori di quei “metalli” che il Massone dovrebbe invece abbandonare prima di entrare nel Tempio. Allo stesso modo bisogna chiarire che nelle Logge non si trovano strani rituali magici per ingraziarsi chissà quale entità e indurla a farci guadagnare soldi o altri beni materiali, o “verità arcane” su alieni, illuminati o altre corbellerie. Per esperienza personale so che candidati convinti di trovare cose del genere capitano spesso. Uno mi disse che voleva far carriera e dopo che gli ebbi spiegato che in Massoneria non c’era modo di farla, ritirò la candidatura. Un altro era convinto che noi avessimo “poteri” magici e che potessimo insegnargli incantesimi per vincere alla lotteria. Ci vuole quindi molta chiarezza e molta prudenza nell’esaminare i candidati.

Passiamo ora a una questione oggi molto sottovalutata e che spesso genera discussioni: i valori fondamentali che informano di sé tutta la Libera Muratoria, anche se non tutti i Riti li dichiarano palesemente nella ritualità.

Differentemente da quanto molti Massoni oggi credono, la Massoneria non è un contenitore neutro dentro cui ognuno può mettere i suoi propri valori e il suo proprio pensiero. Tale idea è stata generata da un mal digerito discorso sulla “libertà di pensiero” intesa come un semplicistico e qualunquista “penso e dico quel che mi pare”. La Massoneria da sempre propugna la libertà di pensiero, la tolleranza e il rispetto per l’altro. Ma, paradossalmente, tale libertà e tolleranza non posso esistere senza che si pongano dei limiti ben precisi, pena il permettere che i più prepotenti impongano a tutti la loro propria volontà, di fatto ponendo fine sia alla libertà che alla tolleranza. Ma dove porre il confine di ciò che è lecito? Il limite alla tolleranza è l’intolleranza: il pensiero intollerante non può essere accettato all’interno della Massoneria, essendo esso massimamente contrario ai suoi valori fondamentali. Al candidato dovrà essere ben spiegato che la Massoneria considera le persone come libere, eguali e come unite da un legame di fratellanza che va oltre la stessa Libera Muratoria. In questo consiste l’universalità della Massoneria. Come potrebbe un razzista abbracciare come suo Fratello un uomo appartenente a un’etnia che egli ritiene “inferiore”, o addirittura “malvagia”?

Idee e comportamenti intolleranti non possono essere accettati in Loggia e il Maestro esaminatore dovrà farlo capire molto chiaramente al candidato. Dentro il limite, poi, del reciproco rispetto e della reciproca tolleranza, sarà possibile la libertà di pensiero necessaria al percorso massonico.

Su questo punto mi si permetta di porre in evidenza un errore che molte Logge fanno, ovvero quello di non accettare delle persone perché troppo “diverse” dai Fratelli che compongono la Loggia. Si formano così, in nome di un mal inteso senso di “armonia”, Logge di Fratelli tutti simili fra loro per classe sociale, livello e formazione culturale, perfino per professione e idee politiche. Questo è quanto di più sbagliato: il percorso massonico ha nel confronto con l’altro, con visioni diverse dalla propria, uno dei maggiori strumenti di perfezionamento. Anche, e forse soprattutto, il confronto con chi ci pone davanti a cose che ci danno fastidio o che mettono a nudo i nostri limiti e difetti è fondamentale. Del resto lo sgrossamento della pietra grezza, che è simbolo del lavoro massonico, non è qualcosa che si faccia con delicatezza, ma con forza e fatica. Accettare solo candidati simili ai Fratelli significa privarli di un utilissimo strumento e rendere meno efficace il lavoro di Loggia. L’esaminatore dovrà, quindi, da una parte, tener ben presenti i valori fondamentali e i limiti da essi posti, ma dovrà anche, dall’altra, stare attento a non farsi influenzare dalle proprie idee particolari e dai propri pregiudizi, restando il più possibile “obiettivo”. Anche per questo il ruolo di esaminatore è riservato ai Maestri i quali, si presume, dovrebbero avere la necessaria conoscenza ed esperienza per esaminare nel giusto modo il candidato. Il fatto, poi, che gli esaminatori debbano essere più di uno (solitamente tre) e indipendenti permette di garantire che le eventuali sviste dell’uno siano compensate dall’altro.

Infine, l’esaminatore dovrà spiegare a grandi linee le caratteristiche del Rito che la Loggia pratica. Ogni Rito ha una sua propria “anima” e un carattere che lo contraddistingue. Bisognerà quindi capire se il candidato sia in cerca di ciò che il Rito della Loggia può dargli, o se cerca qualcosa di diverso. Molte Obbedienze hanno Logge di diversi Riti e il candidato potrebbe essere indirizzato verso una Loggia che pratichi un Rito più adatto alle sue esigenze. Soprattutto Riti (come il Memphis e Misraïm, o lo Scozzese Rettificato) connotati da un approccio più esoterico e spirituale possono non essere adatti a tutti. L’esaminatore spiegherà quindi al candidato le caratteristiche del Rito e, in termini generali, i suoi contenuti e in base alla risposta lo indirizzerà nel migliore dei modi. Capita a volte che l’esaminatore cerchi di convincere il candidato a entrare nella sua Loggia anche quando questo non si presenta come adatto al tipo di ritualità e all’approccio proprio di quel Rito particolare, o quando il candidato desidererebbe entrare in un’Obbedienza di diverso tipo. Questo è un errore da evitare accuratamente, anche se la Loggia avesse bisogno di aumentare il numero dei suoi componenti. Far entrare in Loggia una persona non adatta non porta nulla di buono. Questa persona con tutta probabilità se ne andrà presto, o, nel peggiore dei casi, creerà disarmonia o porterà negatività (come capita quando si introducono carrieristi e arrivisti).

Concludo esprimendo la speranza che questa tavola possa essere utile ai Fratelli incaricati di esaminare i candidati. Gli argomenti sono stati trattati solo per sommi capi e potrebbero sicuramente essere ampliati. Credo però che i Maestri sapranno utilizzare quanto scritto declinandolo secondo le loro proprie esperienza e sensibilità.

Enrico Proserpio

La Parola del secondo grado nel Rito Scozzese Rettificato

Davanti al Tempio di Salomone, a lato dell’ingresso d’Occidente, il re Salomone fece erigere due Colonne di bronzo dal forte senso simbolico. Così dice Ruggiero Di Castiglione:

La colonna di destra (Jakin) evoca, infatti, l’idea di «solidità»; mentre quella di sinistra (Boaz), l’idea di «forza». L’unione dei due nomi indica «stabilità».[1]

La storia della costruzione del Tempio e delle Colonne è narrata nella Bibbia, precisamente nel primo libro dei Re[2]:

Fuse due colonne di bronzo, ognuna alta diciotto cubiti e dodici di circonferenza. Fece due capitelli, fusi di bronzo, da collocarsi sulla cima delle colonne; l’uno e l’altro erano alti cinque cubiti.

Fece due reticoli per coprire i capitelli che erano sopra le colonne, un reticolato per un capitello e un reticolato per l’altro capitello. Fece melagrane su due file intorno al reticolato per coprire i capitelli sopra le colonne; allo stesso modo fece per il secondo capitello. I capitelli sopra le colonne erano a forma di giglio. C’erano capitelli sopra le colonne, applicati alla sporgenza che era al di là del reticolato; essi contenevano duecento melagrane in fila intorno a ogni capitello. Eresse le colonne nel vestibolo del tempio. Eresse la colonna di destra, che chiamò Iachin ed eresse la colonna di sinistra, che chiamò Boaz. Così fu terminato il lavoro delle colonne.[3]

Qui ci occuperemo del significato della Colonna Boaz e del suo nome, il quale è anche la Parola del grado di Compagno[4].

Come si diceva, Boaz (o Booz) significa “forza” o “in forza”. Essa rappresenta una delle virtù necessarie alla pratica iniziatica. In questo grado, però, la forza non appartiene ancora all’Iniziato, ma risiede nella Colonna, nel Tempio. Il Compagno, quindi, si deve appoggiare, per il suo lavoro, alla Loggia e all’Ordine e non ha ancora gli strumenti necessari a camminare da solo. A riprova di ciò ricordiamo che nel Rito Scozzese Rettificato ogni grado corrisponde a una delle sette virtù. La Fortezza, a cui la Parola del secondo grado sembra collegarsi, è la virtù del quarto grado (Maestro Scozzese di Sant’Andrea), ultimo dei gradi strettamente massonici di tale Rito. Il Fratello che abbia raggiunto quel grado ha tutti gli strumenti necessari per muoversi autonomamente e indipendentemente sul piano dei Piccoli Misteri, avendo completato la parte muratoria del percorso connesso alle quattro Virtù Cardinali. Da queste basi potrà partire per ascendere verso la realizzazione dei Grandi Misteri.

La Fortezza è messa come ultima delle Virtù Cardinali da realizzare in sé perché essa necessita delle altre per poter agire nel modo corretto. Senza la guida delle altre tre (Giustizia, Temperanza, Prudenza) la Fortezza rischia di divenire forza bruta, violenta, trasformandosi da Virtù in vizio. Il Compagno ha come Virtù la Temperanza: egli, accudito e aiutato dalla forza della Loggia e della Massoneria tutta, dovrà imparare a placare le passioni, a incanalarle in modo costruttivo, a trovare quel “giusto mezzo” tra gli opposti che diviene sintesi tra gli stessi.

C’è però un altro aspetto da considerare, che è tipico del Rito Scozzese Rettificato e di lui solo (in ambito massonico). Ai significati della Parola del secondo grado Martinez de Pasqually aggiunge un significato ulteriore, attribuendola, come nome proprio, a uno dei figli di Caino. Prima di addentrarci nel racconto martinezista segnalo che anche nella Bibbia c’è un personaggio di nome Boaz (o Booz). Si tratta di un antenato del Re Davide (e quindi di Gesù di Nazareth). Lo incontriamo nel Libro di Rut, dove si narra la storia della moabita Rut, vedova di un uomo ebreo che si era trasferito nel regno di Moab, che alla morte del marito decide di seguire la suocera, Noemi, e vivere in Israele. Giunta lì, mentre spigola, Rut incontra Booz, suo futuro marito:

Noemi aveva un parente del marito, uomo potente e ricco della famiglia di Elimèlech, che si chiamava Booz. Rut, la Moabita, disse a Noemi: «Lasciami andare per la campagna a spigolare dietro a qualcuno agli occhi del quale avrò trovato grazia». Le rispose: «Va’, figlia mia». Rut andò e si mise a spigolare nella campagna dietro ai mietitori; per caso si trovò nella parte della campagna appartenente a Booz, che era della famiglia di Elimèlech. Ed ecco Booz arrivò da Betlemme e disse ai mietitori: «Il Signore sia con voi!». Quelli gli risposero: «Il Signore ti benedica!». Booz disse al suo servo, incaricato di sorvegliare i mietitori: «Di chi è questa giovane?». Il servo incaricato di sorvegliare i mietitori rispose: «È una giovane Moabita, quella che è tornata con Noemi dalla campagna di Moab. Ha detto: Vorrei spigolare e raccogliere dietro ai mietitori. È venuta ed è rimasta in piedi da stamattina fino ad ora; solo in questo momento si è un poco seduta nella casa».[5]

Torniamo al Martinez de Pasqually. Per l’autore settecentesco “Boaz” è il nome del decimo figlio di Caino:

Caino era un grand’uomo di caccia, egli aveva ugualmente allevato tutti i suoi figli maschi alla caccia, e soprattutto il suo decimo figlio sul quale aveva posto tutto il suo attaccamento. Egli non diede a questo suo figlio altro talento che quello della caccia, essendo gli altri suoi figli più portati ai lavori d’immaginazione ed alle opere manuali. Caino diede a questo decimo figlio il nome di Boaz, o Booz, che vuol dire figlio d’uccisione.[6]

Il significato dato dal Martinez de Pasqually al nome Boaz non trova riscontro nella tradizione massonica che non sia di Rito Scozzese Rettificato. Inoltre, questo figlio di Caino non compare nelle Scritture, essendo Enoch l’unico figlio citato[7]. Questo, però, non cambia la profondità e il valore dottrinale delle tesi martineziste, che provengono da un filone iniziatico di grande spessore. Cerchiamo quindi di analizzare la cosa alla luce delle dottrine di tale filone.

Booz è il decimo figlio di Caino. Il dieci è numero divino, che indica il compimento della via. Il decimo figlio, quindi, è il compimento del destino e del tipo di Caino, ovvero il compimento della prevaricazione e della distruzione. Non a caso è lui a causare la fine di suo padre.

Sia Booz che Caino decidono di fare una battuta di caccia, l’uno all’insaputa dell’altro, nello stesso luogo:

Essi partirono dunque insieme per andare a caccia, ma Booz, senza saperlo, prese la stessa strada di suo padre Caino e, essendo tutti e due in un macchione che erano abituati a battere, Booz scorse l’ombra di una figura attraverso questo macchione chiamato Onam, che vuol dire dolore. Booz spiccò allora una freccia che andò a penetrare il cuore di suo padre, avendolo preso per una bestia feroce. Giudicate della sorpresa e del fremito di Booz, allorché fu sul posto dove aveva tirato il suo colpo di freccia e vide suo padre ucciso dalla sua propria mano. Il dolore di Booz fu tanto più grande in quanto sapeva la punizione e la minaccia che il Creatore aveva lanciato contro colui che avesse colpito la persona di Caino[8]. Sapeva che colui che avesse avuto questa sventura sarebbe stato colpito sette volte da pena mortale, o sarebbe stato punito sette volte di morte.[9]

Questi fatti hanno un’importanza particolare essendo essi del tipo della profezia:

Ciò che forma realmente il tipo di profezia, è che l’incontro delle due persone, Caino e Booz, non è premeditato e che l’uno e l’altro si sono trovati senza sapere, nel luogo in cui Caino ricevette il colpo mortale.[10]

Il più profondo valore simbolico del racconto martinezista è comprensibile solo alla luce del terzo grado e non lo affronteremo qui.

Mi limiterò a indicare nella figura di Booz il rischio che l’Iniziato corre nel suo lavoro. Se egli non resterà sulla retta via dello spirito, indulgendo nei vizi e lasciandosi dominare dalle passioni, non potrà che finire con l’incarnare il tipo del prevaricatore e lavorare alla sua stessa fine. Ricordiamo il discorso fatto in precedenza sulla Forza (o Fortezza) e il suo utilizzo. Booz è colui che usa la forza senza essere guidato dalle Virtù. In lui agiscono le passioni dell’intelletto demoniaco, le voci degli spiriti perversi che si sono resi colpevoli della prima prevaricazione. Non a caso egli è l’unico figlio ad avere il solo talento della caccia, espresso alla massima potenza, ovvero un talento violento e distruttivo. Egli lo usa in modo cieco, inconsapevole, e questo porta all’omicidio di suo padre. Se, infatti, agiamo senza consapevolezza, data dalla pratica delle Virtù e dal costante lavoro iniziatico, non possiamo prevedere le conseguenze e imboccheremo la strada contro-iniziatica che porta verso il basso, verso i vizi. In tal senso l’uccisione del padre rappresenta il distacco dallo Spirito, la colpa primordiale, o peccato originale, che ha gettato l’Uomo in questo mondo di materia, dove non gli è più dato di vedere Dio. Il compito dell’Iniziato è quello di sfuggire ai cicli distruttivi dell’intelletto demoniaco per ascendere e giungere alla Reintegrazione. Il Compagno in particolare deve lavorare facendo affidamento sulla Forza della Loggia e della Massoneria, ben meditando i simboli del suo grado e il loro senso, e tenendo sempre presente l’esempio di Booz, figlio di Caino, affinché gli sia di monito.

Enrico Proserpio

[1] Ruggiero Di Castiglione, Alle sorgenti della Massoneria, editrice Atanòr, 1988, pagina 155.

[2] Della costruzione del Tempio di Salomone si parla anche nel Primo Libro delle Cronache, capitolo 22, e nel Secondo Libro delle Cronache, capitolo 3.

[3] Primo Libro dei Re, capitolo 5, versetti 15 – 22, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Non in tutti i Riti Boaz è Parola Sacra del secondo grado. In altri Riti (RSAA, Emulation…) essa è Parola Sacra del primo grado. In questa Tavola si segue la simbologia del Rito Scozzese Rettificato.

[5] Libro di Rut, capitolo 2, versetti 1 – 7, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 99.

[7] Se ne parla in Genesi, capitolo 4, versi 17 – 18.

[8] Si veda Genesi, capitolo 4.

[9] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 100.

[10] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 101.

Ona Vision: poesia di Carlo Porta

Qualche tempo fa, girando per negozi, mi capitò sotto mano un libro di poesie di Carlo Porta, poeta milanese vissuto a cavallo tra il XVIII e XIX secolo. Nello sfogliare, una poesia in particole attirò la mia attenzione. Era una delle poche poesie di Porta che ancora non conoscevo e, quindi, mi misi subito a leggerla. Con mia sorpresa scoprii che riguardava la Massoneria e quindi decisi di scriverci un articolo. Prima di tutto, però, presentiamo l’autore.

N.B. Per chi volesse solo leggere la poesia, testo e traduzione sono linkati in fondo all’articolo.

Carlo Porta

Carlo Porta (15 giugno 1775 – 5 gennaio 1821) è ritenuto il più grande poeta che abbia scritto in milanese. Le sue opere, ammirate e lodate da molti, tra cui lo scrittore francese Stendhal, sono per lo più componimenti ironici, spesso narranti storie, dal contenuto sociale e politico. La sua educazione, avvenuta

Il poeta Carlo Porta.

nella scuola dei Barnabiti a Monza prima e in seminario poi, lasciò nel suo spirito un profondo anticlericalismo che il poeta non esitò mai a esprimere. I preti sono, infatti, le vittime preferite della sua satira, accompagnati, solitamente, dagli aristocratici.

Illuminista, colto, Massone, anticlericale, libertario, il Porta attacca con la sua penna i vizi delle classi dominanti, denunciandone il bigottismo, l’ipocrisia e il perbenismo.

Esempio eccellente della sua critica anti-aristocratica è “La preghiera” di cui riporto i primi versi:

 

Donna Fabia Fabron De Fabrian

l’eva settada al foeuch, sabet passaa,

col pader Sigismond, ex franzescan,

che intrattant el ghe usava la bontaa

– intrattanta, s’intend, ch’el ris coseva –

de scoltà sto discors che la faseva:

 

Donna Fabia Fabrone di Fabriano

era seduta al fuoco, sabato scorso,

con padre Sigismondo, ex francescano,

che intanto le usava la bontà

– intanto, si intende, che il riso cuoceva-

di ascoltare questo discorso che lei faceva

Ecco comparire qui la figura del religioso interessato più a scroccare da mangiare alla ricca signora che non alla sua “salute spirituale”. Il Porta sottolinea il carattere del prete con quel “ex francescan” che ci fa capire come egli abbia preferito la comodità e il buon cibo delle tavole nobiliari alla povertà dei francescani. E intanto che il riso cuoce, padre Sigismondo ascolta il discorso di Donna Fabia.

La nobildonna racconta di essere andata un giorno in chiesa e di essere caduta scendendo dalla carrozza. Un gruppo di poveri, davanti allo spettacolo della caduta, non aveva esitato a prenderla in giro con risa e sberleffi. La donna, con fare superiore, si alza ed entra in chiesa dove recita al Signore la sua preghiera che inizia così:

Mio caro e buon Gesù, che per decreto

dell’infallibil vostra volontà

m’avete fatta nascere nel ceto

distinto della prima nobiltà,

mentre poteva, a un minim cenno vostro,

nascer plebea, un verme vile, un mostro;

Vediamo dunque tutto il disprezzo che la nobildonna ha per il popolo, disprezzo che il Porta sottolinea in diverse opere. In “La nomina del capelan” (la nomina del cappellano), opera che narra la selezione di un nuovo prete di corte da parte di una ricca marchesa, il poeta torna a descrivere l’opportunismo dei preti e l’arroganza e supponenza dei nobili. Basti qui un piccolo estratto:

 

Che, in fin di fatt, se in cà de donna Paola

no gh’era per i pret on gran rispett,

almanca gh’era on fioretton de taola,

de fa sarà su on oeucc su sto difett,

minga domà a on galupp d’on cappellan,

ma a paricc di teolegh de Milan.

Che, in fin dei conti, se in casa di donna Paola

non c’era per i preti un gran rispetto,

almeno c’era un fior di tavola,

da far chiudere un occhio su questo difetto

non solo a un miserabile cappellano,

ma a parecchi dei teologi di Milano.

Non solo preti e aristocratici, però, popolano le poesie del Porta. Anche il popolo trova spazio nella sua poetica. Diversi sono i personaggi popolari a cui il Porta dà voce, spesso in lunghi monologhi. Dal povero vessato dai potenti (Desgrazi de Giovannin Bongee), alla prostituta che racconta la sua storia (La Ninetta del Verzee): persone misere, indifese davanti al potere, che il Porta stima più dei potenti stessi. Questi personaggi, per quanto divertenti, sono sempre descritti con occhio bonario e comprensivo, diversamente da nobili e religiosi.

Oltre che negli ideali, il Porta è moderno anche nello stile. Le sue opere, spesso in sestine a verso libero, sposano appieno lo stile del romanticismo, nascente corrente letteraria che informerà di sé molta letteratura del XIX secolo. E da buon poeta romantico non può esimersi dal partecipare alla contesa tra romantici e neoclassici. Nella poesia “El romanticismo” egli si rivolge a Madame Bibin per spiegarle l’essenza del romanticismo stesso e smentire tutte le brutte cose che certa gente andava dicendo di chi aderisce a questa corrente (si diceva, da parte neoclassica, che i romantici fossero libertini edonisti, dediti solo ai piaceri). Al Porta risponde Carlo Gherardini, poeta neoclassico, con un componimento dal titolo “La risposta di Madam Bibin”. E proprio il Gherardini è il nemico giurato del Porta. I due continueranno a stuzzicarsi a distanza, in un gioco di battibecchi poetici, dai toni, a volte, piuttosto forti. In un sonetto intitolato “Alla musa del sur G.” (Alla musa del signor G.) il Porta definisce l’avversario “Ciolla! Cojon! Sonaj! Morbo! Strument!”, i primi tre termini essendo traducibili con “coglione” e gli altri due significando “morbo, malattia” e “strumento, oggetto senza intelligenza”.

Concludiamo dicendo che il Porta ebbe, a suo tempo, contatti con i più grandi letterati tra cui Ugo Foscolo, Tommaso Grossi, Giovanni Berchet, Alessandro Manzoni… inserendosi a pieno diritto nel clima di vivacità artistica e intellettuale dell’epoca. L’uso del dialetto ha purtroppo limitato la diffusione delle sue opere, difficilmente comprensibili da chi non conosca, e bene, il dialetto milanese, ma ha al contempo donato loro una vivacità e un colore che difficilmente l’italiano potrebbe dare.

Ona vision

Veniamo ora alla nostra poesia. “Ona vision” fu scritta nel 1812 e si inserisce tra le opere satiriche che attaccano clero e nobiltà. La scena si svolge a casa di due sorelle aristocratiche che si intuisce essere zitelle. Con loro ci sono Don Pasquale e il teologo e canonista Don Diego. Don Pasquale sonnecchia davanti al fuoco, brontolando e russando, dopo aver lautamente mangiato. Nessuno però lo disturba, poiché si dice che durante il sonno egli abbia visioni mandate da Dio. Le sorelle pregano sottovoce, chiedendo alla bontà divina di sterminare tutti coloro che si permettono di disturbare i preti mentre dormono. Ma il sonno è agitato e le donne si preoccupano che qualche terribile visione possa far passare al sacerdote la fame per la merenda.

Don Diego, intanto, partecipa alle preghiere, interrompendosi di tanto in tanto per recitare alcune parti del breviario rimaste indietro.

Finalmente Padre Pasquale si sveglia e racconta la visione avuta. Era in Paradiso, e c’erano tanti Santi e Beati da poter far da tappeto al Paradiso stesso.

Le donne chiedono subito se, per caso, abbia visto qualche loro cugina o parente, ma il sacerdote dice di no. In compenso, dice di aver visto molte persone famose, tra cui Giuseppe Parini, Pietro Metastasio e altri celebri personaggi di cui vari in odor di Massoneria.

Le marchesine sono scandalizzate! Com’è possibile che dei Massoni siano in Paradiso? Non sa forse Don Pasquale che solo a conversare con loro si incappa nella scomunica papale?

Per il veggente le cose sembrano mettersi male: potrebbe rischiare addirittura di essere bandito dalla casa e dalla tavola delle due dame!

Per fortuna in suo soccorso viene Don Diego, che da teologo e canonista quale è, salva Don Pasquale dal suo funesto destino con un mirabile gioco di filosofia, che lascio a voi scoprire.

Potete scaricare la poesia con la mia traduzione al link sottostante:

Ona vision, poesia di Carlo Porta

Enrico Proserpio

 

Considerazioni sulla Giustizia

Una delle peculiarità del Rito Scozzese Rettificato è il collegamento tra i gradi e le Virtù Cardinali e Teologali. I primi quattro gradi, quelli prettamente massonici, si ricollegano alle Virtù Cardinali:

  • Apprendista: Giustizia
  • Compagno: Temperanza
  • Maestro: Prudenza
  • Maestro Scozzese di Sant’Andrea: Fortezza

Ci occuperemo qui della Giustizia, inerente al primo grado. Il riferimento a tale Virtù appare nel Rituale di Ricevimento[1], sia nell’arredamento del Tempio che nel testo. Nel Tempio saranno, infatti, posti due cartelli: uno all’Oriente, con la scritta “Giustizia” e l’altro all’Occidente, con la scritta “Clemenza”. Il Maestro Venerabile, inoltre, rivolge al nuovo Fratello, appena ricevuto in Loggia, delle spiegazioni inerenti il senso delle scritte sopra citate. Indicando il cartello all’Oriente egli spiega:

Le leggi della Giustizia sono eterne e immutabili. Colui che, essendo affranto dai sacrifici che essa esige, rifiuta di sottomettervisi, è un codardo che si disonora e si perde. Non esitate dunque mai Fratello mio, e siate giusto verso tutti gli uomini, senza consultare le vostre passioni, né i vostri interessi personali. Queste armi che vedete puntate contro di voi, non sono che una debole immagine dei rimorsi dei quali sarete preda se voi aveste la disgrazia di mancare di Giustizia e al vostro giuramento.

Facendo poi girare il Fratello, affinché veda il cartello all’Occidente, prosegue:

Fratello mio, se voi siete di animo giusto e sincero, non piangete affatto; la Clemenza tempera i rigori della Giustizia in favore di coloro che si sottomettono generosamente alle sue leggi. Usate dunque la moderazione con gli altri uomini quando essi si saranno resi colpevoli verso di voi.

Alla luce di questi brani possiamo fare alcune considerazioni. Tanto per cominciare risulta evidente che non si sta parlando della semplice giustizia profana, quella delle leggi dello stato e dei tribunali, che della vera Giustizia è il pallido riflesso (quando non un vero e proprio stravolgimento). Lo si può comprendere dall’accenno all’eternità e immutabilità delle leggi, il che le pone su un piano superiore a quello materiale che eterno e immutabile non è. Le leggi a cui si fa riferimento sono dunque quelle del mondo divino, quelle emanate dalla mente di Dio all’origine dei tempi. Da quei principi primi derivano le leggi del mondo materiale e le leggi dello Spirito.

Fu dalla prevaricazione, che altro non è che la disobbedienza alle leggi divine, che derivò il male, il quale non esisteva e che non discende dal Creatore. La prevaricazione, che ha fatto decadere dal loro primo stato di gloria gli spiriti perversi prima e Adamo poi, ha dato origine a una lotta interna all’umanità, alla “discendenza di Adamo” tra l’intelletto buono (proveniente da Dio) e l’intelletto cattivo (proveniente dagli spiriti perversi). In mezzo si trova l’uomo, che deve scegliere tra il seguire i dettami di Dio e lavorare alla propria reintegrazione e il cedere alla tentazione. Il male deriva proprio dalle suggestioni dell’intelletto cattivo e dalla scelta dell’uomo di metterle in atto. Così scrive il Martinez de Pasqually:

Si può vedere, in tutto ciò che ho detto, che l’origine del male non è venuta da alcun’altra causa se non dal cattivo pensiero seguito dalla volontà cattiva dello spirito contro le leggi divine, e non che lo spirito stesso emanato dal Creatore sia direttamente il male, perché la possibilità del male non è mai esistita nel Creatore. Esso nasce unicamente dalla sola disposizione e volontà della sua creatura. Coloro che parlano differentemente non parlano con cognizione di causa delle cose possibili ed impossibili alla Divinità. Allorché il Creatore castiga la sua creatura, gli si dà il nome di giusto, e non quello d’autore del flagello ch’egli lancia per preservare la sua creatura dal patimento infinito.[2]

Possiamo dire che la Giustizia, in senso esoterico del termine, è dunque la capacità di distinguere l’intelletto buono da quello cattivo. Essa è la prima virtù, necessaria a ogni percorso spirituale e a ogni realizzazione. Senza la capacità di distinguere, l’uomo è, infatti, preda di ogni suggestione, di ogni superstizione e di ogni perversione. Per questo la Giustizia è la virtù del primo grado, essendo essa la base necessaria a praticare tutte le altre.

Ma come può l’uomo distinguere ed essere certo di praticare la Giustizia? Nel suo stato di privazione il Minore non ha la visione chiara delle cose e può cadere nell’errore. Per tal motivo esistono le leggi morali ed etiche, leggi che il massone deve interiorizzare, cercando di comprenderne il senso profondo per costruirsi quegli strumenti necessari a comprendere e a distinguere. Ogni uomo dovrà lavorare su se stesso e fare il proprio percorso di comprensione, essendo la via di ognuno unica. Non ci dilungheremo qui sui principi morali, che da soli richiederebbero una lunga trattazione. Un accenno però ad alcuni punti è necessario.

Il primo punto è il dovere, per il massone, di comportarsi secondo giustizia, per quanto possibile. L’errore è comprensibile e, a volte, anche perdonabile. La malafede non lo è. In tal senso il Libero Murature non deve cercare scuse per le proprie debolezze o, peggio, non deve essere ipocrita. Il Lavoro di Loggia non ha senso se nel mondo profano i principi vengono abbandonati in nome dell’interesse immediato e personale. Il mondo profano non è una cosa distaccata da quello spirituale, ma ne costituisce la base e il terreno di prova. Senza coerenza nei principi non c’è elevazione. Se l’adesione ai principi della Giustizia è solo esteriore, di facciata, non si realizzerà nulla e si rimanderà la propria reintegrazione, poiché allo Spirito non sfugge nulla. Anche la Scrittura ci ricorda di diffidare degli ipocriti:

Nel frattempo, radunatesi migliaia di persone che si calpestavano a vicenda, Gesù cominciò a dire anzitutto ai discepoli: «Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia. Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti. [ … ]»[3]

In tal senso è anche importante il non usare due pesi e due misure nei giudizi, poiché la Giustizia è una e non può essere differente a seconda delle convenienze. Anche qui la Scrittura è chiara:

In quel tempo diedi quest’ordine ai vostri giudici: Ascoltate le cause dei vostri fratelli e giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con lo straniero che sta presso di lui. Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali, darete ascolto al piccolo come al grande; non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio; le cause troppo difficili per voi le presenterete a me e io le ascolterò.[4]

E ancora:

Il doppio peso è in abominio al Signore

e le bilance false non sono un bene.[5]

In questo ultimo passo del Deuteronomio si incontrano anche altri aspetti molto interessanti: il fatto che il giudizio appartenga a Dio e l’esistenza di cause troppo difficili per l’uomo. Le due cose in realtà sono connesse. L’uomo è un essere limitato e come tale non può giudicare in modo certo. Solo Dio ha la possibilità di giudicare senza tema d’errore e, quindi, secondo vera Giustizia. Inoltre la natura umana, imperfetta e debole, induce l’uomo a errare. Non esiste un essere umano che non abbia mai compiuto atti ingiusti e non abbia mai compiuto qualcosa di male. Per questo il Rituale fa accenno anche alla Clemenza, che, da una parte, mitiga la durezza della Giustizia e, dall’altra, ci indica ciò che dobbiamo fare. Per quanto il nostro prossimo ci appaia colpevole, dobbiamo cercare di applicare la comprensione e la Clemenza, ricordandoci sempre della nostra fondamentale incapacità di conoscere e comprendere tutte le ragioni di ciò che vediamo. Per questo, anche nel momento in cui ci si trovi costretti ad agire contro qualcuno e ad applicare le leggi e le norme dell’Ordine o dello stato, lo si dovrà fare senza astio e nella giusta misura. Si dovrà stare attenti ad agire sulla base del buon intelletto che viene dall’alto e non sull’onda di bassi sentimenti di vendetta che sono suggeriti dal cattivo intelletto. Anche la vendetta, infatti, appartiene a Dio:

Non dire: «Voglio ricambiare il male»,

confida nel Signore ed egli ti libererà.[6]

Anche San Paolo scrive:

Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore.[7]

E continua suggerendo come comportarsi con chi compie atti ingiusti nei nostri confronti:

Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male.[8]

Nostro compito è comportarci in modo giusto, è cercare di comprendere e conoscere le vie della Giustizia per seguirle. Applicare tali leggi su chi le viola e vendicare i torti sta invece a Dio, unico ad avere la possibilità di farlo agendo in modo retto e in piena coscienza e conoscenza.

Ovviamente questo non significa che l’uomo non debba mai contrastare chi agisce ingiustamente. Solo che il contrasto all’ingiustizia deve essere portato avanti nel modo opportuno, seguendo i dettami della Ragione, nel senso più elevato e spirituale del termine, e non seguendo la sete di vendetta, come già si sottolineava in precedenza. La legge umana, se creata con questo spirito, diviene quindi uno strumento utile per gestire le ingiustizie senza generarne delle altre. Anche qui, però, chi la applica deve sempre ricordare la Clemenza e la giusta misura, altrimenti la legge stessa rischia di trasformarsi nel male che cerca di combattere. Questo vale per le leggi degli stati, ma anche per la legge morale. Se ci si dimentica del cuore della Legge, ovvero della sua natura di strumento per evitare la prevaricazione e aiutare gli uomini a vivere rettamente, e la si erge a riferimento assoluto e indiscutibile, si finisce con l’adorare la Legge come nuovo Dio e con il compiere il male stesso in suo nome. Anche Cristo se la prende con chi svuota la Legge del suo contenuto vero e ne applica la lettera in modo pedissequo, rigido e intransigente per i propri interessi umani:

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.

Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? E dite ancora: Se si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’aneto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni di ipocrisia e d’iniquità.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri![9]

Per concludere vorrei accennare al simbolismo che si riscontra nella lama numero VIII dei Tarocchi che della Giustizia prende il nome. Nel simbolismo di questa lama ritroviamo quanto detto in precedenza: la spada indica il potere della Giustizia, che deve essere però temperato dalla misura e dall’equità, rappresentate dalla bilancia. Inoltre la spada è verticale, puntata verso il cielo e non verso un ipotetico colpevole. Questo ci suggerisce che, come dice la Scrittura, il suo uso sia riservato a Dio. Oswald Wirth, nella sua opera sui Tarocchi, ci spiega l’importanza della Giustizia, che egli identifica con la Legge divina:

Senza di lei nulla può vivere, poiché gli esseri non esistono se non in virtù della legge alla quale sono sottomessi.[10]

E ci indica anche la connessione tra il simbolismo dei Tarocchi e quello massonico:

Per analogia con le colonne Jakin e Bohas del Tempio di Salomone, i pilastri del trono della Giustizia segnano i limiti della vita fisica: tra loro si estende il campo limitato dell’attività animatrice.[11]

Per il Wirth, inoltre, la Giustizia è anche equilibrio, armonia universale che, se rotta in qualche modo, si ristabilisce inesorabilmente:

Nella mano destra, la dea stringe, inoltre, una spada formidabile, che è la spada della fatalità, poiché nessuna violazione della legge rimane impunita. Non vi è vendetta: ma l’implacabile ristabilimento di ogni equilibrio infranto provoca prima o poi la reazione ineluttabile della Giustizia immanente, alla quale ci collega l’arcano VIII.

Ma lo strumento riparatore degli errori commessi è la Bilancia, le cui oscillazioni riportano l’equilibrio. Ogni azione, ogni sentimento, ogni desiderio influiscono sulla sua asta: ne derivano accumulazioni equivalenti che avranno ripercussioni fatali, in bene o in male. Le energie messe in gioco si capitalizzano; quelle che procedono da una bontà generosa arricchiscono l’anima, poiché colui che ama si rende degno di essere amato. Le simpatie sono più preziose di tutte le ricchezze materiali: nessuno è più povero dell’egoista che rifiuta di darsi psichicamente. Dobbiamo saper donare, per essere ricchi.[12]

Infine, facciamo notare che il numero VIII, che corrisponde alla lama della Giustizia, è, per Martinez de Pasqually, il numero dello “Spirito doppiamente forte appartenente al Cristo”. Che non sia una coincidenza appare evidente.

Enrico Proserpio

[1] Nel Rito Scozzese Rettificato non si parla di “Iniziazione” ma di “Ricevimento”. Essendo tale Rito di matrice cristiana, si ritiene che il recipiendario sia già stato introdotto sulla Via col Battesimo. Egli quindi è già “iniziato” e col Ricevimento in Loggia prosegue il suo percorso su un livello nuovo e più approfondito.

[2] Martinez de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L, 2003, pagina 38.

[3] Vangelo secondo Luca, capitolo 12, versetti 1 – 3, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Deuteronomio, capitolo 1, versetti 16 – 17, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[5] Proverbi, capitolo 20, versetto 23, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Proverbi, capitolo 20, versetto 22, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[7] Lettera ai Romani, capitolo 12, versetti 17 – 19, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[8] Lettera ai Romani, capitolo 12, versetti 20 – 21, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[9] Vangelo secondo Matteo, capitolo 23, versetti 13 – 32, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[10] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 2002, pagina 166.

[11] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 2002, pagina 166.

[12] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 2002, pagine 168 – 169. Corsivi originali.

Dogma, dogmatismo e Massoneria, ovvero della compatibilità tra Cristianesimo e Massoneria

Da che è nata la moderna Massoneria, ci si è posti il problema della compatibilità tra l’appartenenza massonica e la fede cristiana.

Il discorso è ovviamente complesso e non si può ridurre a un semplice articolo. Cercherò comunque di dare un quadro di massima della questione.

Finché la Massoneria fu operativa, formata, cioè, da muratori veri e propri che costruivano cattedrali, palazzi ed edifici vari, la questione non si pose. Le congregazioni muratorie, infatti, nascono nel medioevo in ambiente cattolico-romano e del cattolicesimo adottano la dottrina religiosa (salvo poi accogliere in segreto filosofi e artisti portatori di idee e dottrine diverse ed “eretiche”). Ne è segno la presenza di sacerdoti cattolico-romani tra i membri delle Logge. Fin dall’inizio, infatti, alle corporazioni non appartenevano solo muratori, ma anche membri che svolgevano altre funzioni. Questi venivano detti “Muratori Accettati” in quanto, pur non essendo muratori veri e propri, venivano accettati come tali. Tra di loro c’erano filosofi, teologi, artisti e letterati che contribuivano con la loro sapienza alla progettazione degli edifici e alle decorazioni degli stessi. Ma i due membri accettati sempre presenti, in ogni Loggia, erano il medico e, appunto, il prete. In quell’epoca, la religione era centrale nella vita delle persone e della società. Per questo le Logge necessitavano di un prete per svolgere le funzioni ordinarie (la messa) e per garantire i conforti religiosi a coloro che incappavano in incidenti e malattie. Fino a pochi decenni fa, infatti, poteva bastare una scheggia di sasso nell’occhio, o un’altra incidente anche banale, per causare infezioni mortali. Se poi pensiamo che i medici agivano in base a idee filosofiche, basate sul mero ragionamento speculativo e senza nessuna base esperienziale ed empirica, possiamo ben capire che il prete dovesse spesso subentrare con l’estrema unzione dopo i tentativi, vani, se non dannosi, di cura.

I secoli XVI e XVII videro però un drastico cambiamento nella cultura, nella politica e anche nella religiosità delle persone. A partire dalla riforma luterana nulla fu più come prima. Il potere monolitico della chiesa di Roma si stava sgretolando. E in una roccia crepata basta infilare una leva e far forza perché la roccia si rompa. Lutero fu la leva con cui diversi principi tedeschi prima, e monarchi poi, scardinarono l’egemonia di Roma. L’era moderna si stava aprendo. Per la prima volta dopo un millennio e mezzo l’Europa non era più unita sotto una sola Chiesa, ma era divisa e discorde sulla dottrina. Per due secoli il continente si coprì del sangue delle vittime delle guerre di religione, i cattolici massacrarono i protestanti e i protestanti ricambiarono senza risparmiarsi. Ma tale clima di guerra e violenza era destinato a finire.

L’inizio del XVIII secolo, in Inghilterra, vedeva una società non più dominata reda un unico pensiero religioso. Non solo: non si riusciva a intravedere una maggioranza tale da potersi imporre sulle altre fazioni. Il popolo inglese era cristiano, ma i vari Cristianesimi (cattolico-romano, anglicano, luterano…) erano numericamente simili e nessuno quindi poteva prevalere. In una simile situazione nacque la necessità e la volontà di un modo diverso di approcciarsi alla questione, un modo differente di fare spiritualità, filosofia e società. Al contempo, la Massoneria operativa andava sempre più in crisi a causa dei cambiamenti socio-economici dell’Inghilterra (e dell’Europa in generale) dell’epoca. Il nascente capitalismo rese obsolete le corporazioni di mestiere che si videro superare da aziende edili di tipo moderno, più snelle nella struttura e quindi molto più a buon mercato. I muratori quindi entravano sempre meno nelle Logge e, al contempo, queste si riempivano di membri Accettati, portatori di idee sociali, religiose e filosofiche spesso rivoluzionarie per l’epoca. Il fermento ideologico e filosofico della Massoneria del primo XVIII secolo fu, senza dubbio alcuno, il seme che fece germogliare, pochi decenni più tardi, l’illuminismo.

Il 24 giugno 1717, alla Taverna dell’Oca e della Graticola, nacque la prima Obbedienza massonica moderna: La Gran Loggia di Londra, poi divenuta Gran Loggia Unita d’Inghilterra. I suoi fondatori unirono quattro Logge preesistenti in una struttura più ampia, ma il vero cambiamento fu il passaggio dalla Massoneria operativa alla Massoneria speculativa. I membri della nuova Obbedienza non erano più muratori veri e propri, ma erano costruttori del Tempio interiore, filosofi, nel senso più nobile del termine, che lavoravano al bene dell’Umanità. E lo facevano dialogando in modo fraterno, guidati da un’ortoprassi fatta di simboli e Rituali, e da valori universali da tutti condivisi. In questo modo il luterano, il cattolico-romano, l’anglicano potevano dialogare tra loro senza conflitto, ma, anzi, con un proficuo e costruttivo confronto tra le diversità. E per poterlo fare la Massoneria non poteva più essere confessionale.

Nelle sue “Costituzioni” del 1723, primo Statuto massonico moderno da cui tutti i successivi prendono spunto e principio, James Anderson cercò di salvare la situazione impostando le regole della Massoneria in modo da non dare appiglio a nessuno per accusare l’Istituzione di irreligiosità o di contrarietà al Cristianesimo. Per prima cosa quindi fece una lunga e dettagliata storia della Massoneria. Si tratta di una storia mitologica e non reale, da leggersi in chiave simbolica e allegorica. Essa prende l’abbrivio da Adamo e, passando per Noè e altri grandi personaggi della Bibbia e non solo, racconta la storia dell’Arte Muratoria.

Ciò che più conta, però, e che ancor oggi risuona di un’attualità luminosa ed eccezionale, è il primo articolo delle Costituzioni che così recita:

Un Muratore è tenuto per la sua condizione a obbedire alla legge morale; e se intende rettamente l’Arte non sarà mai un ateo stupido né un libertino irreligioso. Ma sebbene nei tempi antichi i Muratori fossero obbligati in ogni Paese ad essere della religione di tale Paese o Nazione, quale essa fosse, oggi peraltro si reputa più conveniente obbligarli soltanto a quella Religione nella quale tutti gli uomini convengono, lasciando loro le loro particolari opinioni; ossia essere uomini buoni e sinceri o uomini di onore ed onestà, quali che siano le denominazioni o le persuasioni che li possono distinguere; per cui la Muratoria diviene il Centro di Unione, e il mezzo per conciliare sincera amicizia fra persone che sarebbero rimaste perpetuamente distanti.

L’Anderson aveva colto appieno l’importanza di un tema tanto delicato, soprattutto in un’epoca dove in diverse parti d’Europa ancora si bruciavano sul rogo eretici e streghe[1].

Se l’impegno dell’Anderson fu sufficiente a evitare discordie interne tali da distruggere l’Ordine e fu in grado di rendere la Massoneria un’istituzione funzionante e ricca di contenuti, non poté però evitare la scomunica papale, che nella Massoneria nascente vedeva il rischio della legittimazione delle “eresie” anglicana e protestanti. E come dargli torto? Dopotutto la Massoneria prendeva spunto e vitalità proprio da quella pluralità di vedute e da quel rispetto per la diversità che erano il pericolo più grande per il pensiero unico ed egemonico che ancora la Chiesa Cattolica Apostolica Romana ambiva imporre a tutti.

Fu Clemente XII a scomunicare i Massoni con la lettera “In eminenti apostolatus” del 1738. Ecco una parte del testo:

…decretiamo doversi condannare e proibire, come con la presente Nostra Costituzione, da valere in perpetuo, condanniamo e proibiamo le predette Società, Unioni, Riunioni, Adunanze, Aggregazioni o Conventicole dei Liberi Muratori o Massoni, o con qualunque altro nome chiamate. Pertanto, severamente, ed in virtù di santa obbedienza, comandiamo a tutti ed ai singoli fedeli di qualunque stato, grado, condizione, ordine, dignità o preminenza, sia Laici, sia Chierici, tanto Secolari quanto Regolari, ancorché degni di speciale ed individuale menzione e citazione, che nessuno ardisca o presuma sotto qualunque pretesto o apparenza di istituire, propagare o favorire le predette Società dei Liberi Muratori o Massoni o altrimenti denominate; di ospitarle o nasconderle nelle proprie case o altrove; di iscriversi ed aggregarsi ad esse; di procurare loro mezzi, facoltà o possibilità di convocarsi in qualche luogo; di somministrare loro qualche cosa od anche di prestare in qualunque modo consiglio, aiuto o favore, palesemente o in segreto, direttamente o indirettamente, in proprio o per altri, nonché di esortare, indurre, provocare o persuadere altri ad iscriversi o ad intervenire a simili Società, Unioni, Riunioni, Adunanze, Aggregazioni o Conventicole, sotto pena di scomunica per tutti i contravventori, come sopra, da incorrersi ipso facto, e senza alcuna dichiarazione, dalla quale nessuno possa essere assolto, se non in punto di morte, da altri all’infuori del Romano Pontefice pro tempore.

Come si può vedere la reazione fu feroce. Se infatti in Inghilterra il re era capo della Chiesa Anglicana e quindi la scomunica papale poco contava, nel resto d’Europa e in particolare nei paesi cattolici (Spagna, Francia, i vari stati italiani…) la scomunica era ancora una cosa pesante, che poteva significare problemi giudiziari, prigionia (se non peggio) o, nel migliore dei casi, isolamento e morte sociale. Proprio questo è lo scopo della scomunica: non solo il Massone è scomunicato, ma lo è anche chiunque lo aiuti o abbia rapporti con lui. Il Papa voleva dunque fare terra bruciata intorno alla Massoneria e ai Massoni.

Nei secoli successivi altri Papi hanno aggiunto ulteriori pene, o precisato meglio la scomunica. Benedetto XV, per esempio, nel 1917 sentenziò la negazione delle esequie cattoliche ai Massoni, la proibizione dei libri che presentassero la Massoneria come utile e non dannosa, la scomunica per chiunque aderisse a Logge massoniche e l’obbligo di denunciare al Sant’Uffizio[2] quei sacerdoti e quei chierici che facessero parte di Logge massoniche.

La situazione oggi è migliore, ma non di molto. La scomunica è stata tolta ed è stata sostituita dalla colpa grave. Per il Massone insomma è vigente l’interdizione dai sacramenti. Giovanni Paolo II, con il nuovo codice canonico del 1983, eliminò la dizione “Massoneria” e sostituì la condanna della stessa con la condanna di qualunque associazione cospiri contro la Chiesa. Per chi poi facesse parte di una tale associazione è prevista un’opportuna punizione e, nei casi più gravi, l’interdizione dai sacramenti. Il testo fu redatto dalla Congrega per la Dottrina della Fede, erede del Sant’Uffizio, diretta dall’allora Cardinale Joseph Ratzinger e approvato dal Papa. La Congrega per la Dottrina della Fede precisò che la Massoneria era da ritenersi incompatibile con la fede cattolico-romana e che, quindi, rientrava nelle associazioni che cospirano contro la Chiesa. Divenuto Benedetto XVI, Ratzinger non mutò nulla a riguardo e l’attuale Papa Francesco I sembra del tutto disinteressato all’argomento.

Ma da dove viene tutto questo astio? Si tratta solo di una questione politica, relativa al potere temporale della Chiesa di Roma? Personalmente non credo. Certo, l’aspetto politico fu senza dubbio importante, forse determinante. Ma c’è dell’altro: c’è un modo differente di vedere il mondo, di ragionare, di rapportarsi con l’altro.

Va fatto, per comprendere meglio il discorso della compatibilità o incompatibilità di Massoneria e religione, un discorso su cosa sia il Dogma di Fede.

I Dogmi sono la base della dottrina cristiana in generale e cattolica in particolare. Sono quelle premesse ritenute certe e indubitabili su cui poggia l’intero edificio della dottrina e della teologia. I Dogmi sono i pilastri della Fede e della Religione, gli unici veri “punti fermi”. Tutto il resto è, seppur nei limiti del metodo teologico, discutibile.

I Dogmi riguardano la natura di Dio (per quel poco che possiamo comprenderne) e altri temi della più alta dottrina. Non toccano argomenti relativi quali la morale (variabile a seconda dei tempi e delle nazioni) o altre questioni contingenti. Il Dogma è eterno (o per lo meno ritenuto tale dai credenti) e non può essere legato alla contingenza delle cose umane.

Altro conto è, invece, il dogmatismo, ovvero quel modo di pensare totalitario, che vorrebbe imporre a tutti una sola verità come unica accettabile. Un simile atteggiamento si riscontra spesso non solo nei religiosi (che tendono ad assolutizzare anche ciò che assoluto non è), ma anche in persone che non si interessano alla religione o che si definiscono atee. C’è spesso un rifiuto di ascoltare l’altro e le discussioni si riducono al tentativo di soverchiare l’interlocutore con i propri argomenti o, peggio, cercando di non lasciarlo parlare. Questo atteggiamento (sempre più diffuso nella società italiana a tutti i livelli) è quanto di meno massonico esista.

Ora, nella Massoneria non c’è nulla che sia in disaccordo con i valori del Cristianesimo. In nessun modo la Libera Muratoria nega i precetti della religione cristiana o cerca di dissuadere i propri membri dal seguirla. Anzi, come si evince dalla Costituzioni di Anderson e non solo, la religione (non sono quella cristiana) completa il percorso del Massone.

Se, però, la Massoneria è compatibile col Cristianesimo, non tutti i cristiani (e i religiosi in genere) sono adatti alla Massoneria. Vi sono frange del Cristianesimo, tanto cattolico quanto protestante, improntate a un certo fanatismo. Questi vorrebbero imporre la loro propria visione del mondo a tutta la società, arrogandosi il diritto di giudicare cosa sia giusto o sbagliato e pretendendo di poter censurare, se non punire, chi dissente dalla loro visione o chi, per una ragione o per l’altra, è da loro ritenuto “diverso”. Per quanto un simile atteggiamento sia lontano dal messaggio evangelico (Cristo invita a non giudicare in più occasioni), questo modo di ragionare pare si stia diffondendo sempre più. Forse perché il fanatismo, coi suoi toni forti, attira le persone deboli e sole, soprattutto in momenti di crisi e decadenza come quello che stiamo vivendo. Ma della decadenza il fanatismo non è la cura, ma il più grave segno.

La Massoneria non può accogliere fanatici nel suo seno. Come potrebbe, del resto, una persona non disposta al dialogo e al confronto sedere tra le Colonne di un Tempio che su tali principi basa il suo Lavoro? Su questo tema credo che la Massoneria tutta dovrebbe fare una riflessione seria e profonda, perché, purtroppo, i semi del fanatismo si sono intrufolati anche nelle Logge sotto forma di teorie pseudo-esoteriche di stampo spesso razzista o comunque discriminatorio, basate su pregiudizi e su farneticazioni di qualche presunto “maestro” del XIX o XX secolo. Si sentono le più grandi assurdità su ciò che sarebbe “naturale” o meno, si sentono dichiarazioni violente su minoranze e su attivisti politici che si battono per diritti e laicità, si percepisce in modo chiaro un certo odio per l’altro e una profonda ignoranza delle cose dello Spirito e della Massoneria. Ho sentito dire a un Fratello (un Maestro) che la Chiesa Cattolica non si può contestare perché, a suo dire, sarebbe la più grande associazione iniziatica esistente. Ora, la Chiesa non è un’associazione iniziatica, ma religiosa e basta leggere il Guénon per sapere quale sia la differenza. Inoltre “iniziatico” o “spirituale” non significano “incontestabile” e “indiscutibile”. Al contrario! L’indiscutibilità di una qualsivoglia tesi è un concetto assurdo per chi davvero comprenda l’essenza della Massoneria. I capi saldi della nostra Istituzione, infatti, non sono dogmi piovuti dall’alto o imposti da una qualche autorità, ma simboli, Rituali, strumenti e valori temprati da secoli di pratica, elementi che sono accettati e ritenuti validi perché hanno resistito, e resistono, alla continua prova del tempo. Il Fratello, inoltre, dimenticava i contrasti tra Massoneria e Chiesa di Roma del secolo XIX proprio in nome della Libertà di espressione e di critica.

Altre volte mi è capitato di riscontrare in molti Fratelli la mancanza di volontà di mettersi in discussione e la chiusura verso le ragioni altrui. Questi sono gli atteggiamenti dogmatici incompatibili con la Massoneria che, purtroppo, sempre più si riscontrano anche tra le Colonne. Solo con una profonda riflessione su questi temi la Massoneria potrà tornare a essere il faro della nostra società e smettere finalmente di essere lo specchio della moderna decadenza.

Tornando al dogma, se con i vari Cristianesimi di stampo ortodosso e protestante non ci sono motivi per parlare di incompatibilità tra i dogmi e la Massoneria, per il cattolicesimo romano le cose si complicano. La Chiesa Romana, infatti, ha alcuni dogmi in più rispetto agli altri cristianesimi e in particolare rispetto ai “cugini” ortodossi, dogmi introdotti dopo lo scisma del 1054. Già all’epoca lo scontro fu soprattutto sulla questione del Primato di Pietro (anche se il casus belli che generò lo scisma fu un altro[3]) tra gli apostoli che, per Roma, giustifica il Primato Papale su tutti gli altri Vescovi. Per l’Ortodossia invece il Primato va a tutti i Patriarchi ed è solo un Primato di carità e di onore, non di potere.

Negli ultimi due secoli, poi, sono stati introdotti tre nuovi dogmi. E se i dogmi mariani moderni (Immacolata Concezione e Assunzione di Maria in Cielo) non creano nessun attrito con il modo di operare della Massoneria, il terzo dogma, l’Infallibilità Papale, introdotto nel 1870 dal Concilio Vaticano Primo, indetto da Papa Pio IX, crea qualche problema, almeno da un punto di vista filosofico.

Ciò che collide con la Libera Muratoria riguarda, quindi, la gerarchia ecclesiastica e non Dio. La Massoneria non può riconoscere il Primato Papale, perché riconoscendo pari dignità alle varie religioni e vie spirituali, non può riconoscere la superiorità di un Pontefice, di un capo religioso. La Massoneria accetta i cattolici, ne riconosce la dignità religiosa e li rispetta come è giusto che sia, ma non si sottomette all’autorità della gerarchia di nessuna Chiesa.

Il dogma dell’Infallibilità Papale pone anche problemi di tipo più filosofico. Fu introdotto nel 1870 mentre Roma cedeva alle armate dei Savoia. Pio IX e i Vescovi convenuti a Roma per il Concilio erano convinti che la fine della Chiesa stesse arrivando: la Città Santa, la capitale della Cristianità veniva invasa da un esercito occupante comandato da generali Massoni e obbediente a un re che con la Massoneria andava a braccetto. Certi che non si sarebbe più potuto indire un Concilio in futuro, si decisero ad approvare l’Infallibilità Papale al fine di permettere al Santo Padre di introdurre nuovi dogmi e di dirimere diatribe importanti a livello di magistero senza l’intervento, appunto, di un Concilio.

Ma in cosa consiste realmente il dogma dell’Infallibilità Papale? Eccone il testo:

Perciò Noi, mantenendoci fedeli alla tradizione ricevuta dai primordi della fede cristiana, per la gloria di Dio nostro Salvatore, per l’esaltazione della religione Cattolica e per la salvezza dei popoli cristiani, con l’approvazione del sacro Concilio proclamiamo e definiamo dogma rivelato da Dio che il Romano Pontefice, quando parla ex cathedra, cioè quando esercita il suo supremo ufficio di Pastore e di Dottore di tutti i cristiani, e in forza del suo supremo potere Apostolico definisce una dottrina circa la fede e i costumi, vincola tutta la Chiesa, per la divina assistenza a lui promessa nella persona del beato Pietro, gode di quell’infallibilità con cui il divino Redentore volle fosse corredata la sua Chiesa nel definire la dottrina intorno alla fede e ai costumi: pertanto tali definizioni del Romano Pontefice sono immutabili per se stesse, e non per il consenso della Chiesa. Se qualcuno quindi avrà la presunzione di opporsi a questa Nostra definizione, Dio non voglia!: sia anatema.[4]

È importante notare che non tutto ciò che il Papa dichiara o afferma è coperto dall’Infallibilità. Perché l’Infallibilità ci sia, il Papa deve parlare “ex cathedra”, in modo quindi ufficiale e palese. Ciò avvenne solo due volte nella storia, per l’introduzione dei due dogmi mariani moderni. L’Immacolata Concezione fu introdotta infatti con una dichiarazione ex cathedra dallo stesso Pio IX nel 1854, generando non poche polemiche per la presa di posizione. L’introduzione dell’Infallibilità pose fine al dubbio sulla liceità della proclamazione del dogma e diede definitivo valore allo stesso. Nel 1950, Pio XII, dopo aver consultato i Vescovi, introdusse il dogma dell’Assunzione di Maria in Cielo usando l’Infallibilità Papale ed evitando così un inutile e dispendioso Concilio.

L’Infallibilità, a livello pratico, non è quindi di grande rilevanza. Resta però il dubbio filosofico e spirituale su questo tema: il Massone può davvero riconoscere questa facoltà al Papa? Può il Massone accettare che un solo uomo sia autorizzato a decidere per tutti arrogandosi il diritto esclusivo del rapporto con l’Altissimo? Personalmente ritengo che sia inaccettabile non solo per i Massoni, ma anche per i Cristiani. Ma questo è il mio punto di vista, da cattolico ortodosso.

Resta però il fatto che ammettere un concetto come quello dell’Infallibilità Papale pone un serio problema al senso del percorso iniziatico stesso. A che serve un percorso di perfezionamento, lungo, faticoso e incerto, pieno di insidie e di prove, quando abbiamo già una verità assoluta, indubitabile e infallibile pronta e a portata di mano? Ammettendo l’Infallibilità Papale si ammette la supremazia di Roma su ogni altra forma di pensiero o di spiritualità. In tal caso ogni altra Via sarebbe inutile, se non dannosa o addirittura diabolica. La Massoneria non può concedere a nessuno un’aura di divina superiorità, se non a Dio stesso, e non può ammettere che un uomo, per quanto potente o Santo possa essere, abbia l’esclusiva del rapporto con Dio.

Dobbiamo però chiarire che non tutti i cattolici romani sono dogmatici e rigidi. Non è necessario credere nell’Infallibilità Papale per essere cattolico. I pilastri del cattolicesimo, quegli elementi che lo distinguono dai protestantesimi, sono altri. Citiamo qui soltanto il culto mariano, il culto dei Santi e, soprattutto, la Transustanziazione, ovvero il credo nel reale, sostanziale mutamento del pane e del vino in Corpo e Sangue di Cristo. È quindi evidente che sta al singolo cattolico romano decidere, in coscienza, se il percorso massonico sia o meno compatibile con il suo credo. Si torna al come si vede la religione, al come la si vive. Il Massone vive la spiritualità come ricerca del Vero al di là delle forme. Non si ferma alla semplice adesione a una dottrina formale e a una morale imposta acriticamente. Lo stesso fa il vero religioso, che attraverso le regole e la dottrina cerca un dialogo interiore genuino e vero col Divino. È il bigottismo, il fanatismo, a essere incompatibile con la ricerca della Verità, poiché il fanatismo è staticità, è l’arroccarsi su una posizione rifiutando ogni confronto. E questo è profondamente contrario alla pratica massonica. Il Massone vive la religione intensamente, come via allo Spirito e non come semplice proclamazione di ciò che è vero e giusto. Il Massone sa che la ri-velazione è solo una nuova forma che nasconde la Verità, ma che ci permette di avvicinarci a essa un po’ di più. Come tale nessuna ri-velazione può essere ritenuta assoluta e immutabile. Il Massone, insomma, sa cogliere quella differenza importante che Louis-Claude de Saint-Martin faceva tra Cristianesimo e Cattolicesimo:

Il cristianesimo è il complemento del sacerdozio di Melchisedec; è l’anima del Vangelo, è esso che fa circolare in questo Vangelo tutte le acque vive di cui le nazioni hanno bisogno per dissetarsi.

Il cattolicesimo, al quale appartiene propriamente il titolo di religione, è la via di prova e di travaglio per arrivare al cristianesimo.

Il cristianesimo è la religione dell’affrancamento e della libertà: il cattolicesimo non è che il seminario del cristianesimo; è la religione delle regole e della disciplina del neofita.

Il cristianesimo riempie tutta la terra alla pari dello spirito di Dio. Il cattolicesimo non riempie che una parte del globo, sebbene il titolo che porta si presenti come universale.[5]

Enrico Proserpio

[1] Gli ultimi roghi storicamente testimoniati in Europa furono nel 1793 in Polonia. Ancora oggi però accadono cose simili in diversi paesi.

[2] Ancora oggi si sentono spesso appelli da parte di alcune frange del cattolicesimo romano a denunciare religiosi e laici Massoni all’autorità ecclesiastica. Ricordiamo in particolar modo l’azione di Padre Luigi Villa (1918 – 2012), che allo scovare sacerdoti e religiosi Massoni ha dedicato la sua vita.

[3] Lo scisma fu generato dalla volontà di Roma di imporre il “Filioque”, ovvero la credenza secondo cui lo Spirito Santo discende dal Padre e dal Figlio (Filioque significa, appunto, “e dal Figlio”). Tale tesi fu rifiutata dagli ortodossi, per i quali lo Spirito Santo discende unicamente dal Padre. Va detto però che il Filioque fu usato come scusa per lo scontro di potere tra il Papa e i Patriarchi orientali, in particolare con quello di Costantinopoli.

[4] l testo è tratto dalla Costituzione Dogmatica Pastor Aeternus del 18 luglio 1870.

[5] Louis-Claude de Saint Martin, Della parola Il ministero dell’Uomo-spirito 3, edizioni Tipheret, 2013, pagina 48.

Il significato della colonna spezzata e della scritta “adhuc stat”

Il quadro con la colonna spezzata e la scritta “adhuc stat”.

Nelle Logge di Rito Scozzese Rettificato, in grado d’Apprendista, si trova un quadro con l’immagine di una colonna spezzata, eretta sulla sua base, con la scritta “adhuc stat”, che potremmo tradurre con “ancora in piedi”.

Quest’immagine è una delle più emblematiche di tale Rito e vale dunque la pena di comprenderne meglio i significati.

Il Rito Scozzese Rettificato deriva dalla Stretta Osservanza Templare, la quale si riproponeva la ricostituzione dell’Ordine del Tempio. Nella Stretta Osservanza quest’immagine rappresentava proprio l’Ordine Templare, che, seppur ufficialmente abbattuto (la colonna spezzata), ancora resiste e lavora per tornare a splendere (il fatto che la colonna sia ancora in piedi).

Con l’avvento di Jean-Baptiste Willermoz, portatore delle dottrine di Martinez de Pasqually e dell’Ordine degli Eletti Cohen dell’Universo, l’emblema della colonna spezzata si arricchisce di un nuovo e più profondo significato.

Per comprenderlo dobbiamo partire dal racconto martinezista sulla creazione e sulla caduta di Adamo, così come sono narrati nel “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”.

In principio tutto esisteva in potenza nella mente di Dio. Nulla però era ancora stato creato, o, meglio, emanato dal Creatore. Prima che il tempo esistesse, Dio emanò i Primi Spiriti, da lui separati. Essi erano in intima connessione col Creatore e il loro compito era quello di esercitare un culto spirituale al Creatore, attraverso le leggi che Dio stesso aveva stabilite. Tali leggi sono eterne e inviolabili.

A questi Primi Spiriti era stato dato anche il libero arbitrio, caratteristica necessaria affinché essi potessero agire. Infatti:

[ … ] non si può loro rifiutare il libero arbitrio con il quale sono stati emanati, senza distruggere in essi la facoltà, la proprietà e la virtù spirituale e personale che loro erano necessarie per operare con precisione nei limiti in cui dovevano esercitare la loro potenza.[1]

Ed essi erano pienamente coscienti delle leggi divine:

Questi primi capi avevano una conoscenza perfetta di ogni azione divina, poiché erano stati emanati dal seno del Creatore solamente per essere testimoni di fronte a tutte le sue operazioni divine ed alla manifestazione della sua gloria.[2]

Eppure alcuni di essi non seppero rimanere all’interno delle leggi e del loro ruolo, ma si vollero ergere a creatori:

Il loro crimine fu d’aver voluto condannare l’eternità divina; in secondo luogo, d’aver voluto limitare l’onnipotenza divina nelle sue operazioni di creazione e, in terzo luogo, d’aver portato i loro pensieri spirituali fino a voler essere creatori delle cause terze e quarte ch’essi sapevano innate nella onnipotenza del Creatore [ … ].[3]

Appena il pensiero della prevaricazione comparve negli Spiriti, il Creatore ne fu consapevole. Ciò nonostante egli non poteva eliminare tale volontà senza violare le leggi eterne da lui stesso stabilite. La prevaricazione quindi ebbe luogo, ma Dio evitò che essa potesse giungere al suo fine, imprigionando gli Spiriti perversi nella prigione del mondo materiale. Essi non persero la loro natura e le loro potenzialità, ma ne persero l’utilizzo in virtù della loro prevaricazione.

Per controllare gli Spiriti perversi e governare la loro prigione materiale, Dio emanò un altro essere: Adamo. A lui il Creatore diede i poteri necessari al suo compito e promise di rendere efficaci le sue operazioni. Dio concesse ad Adamo la conoscenza dei suoi pensieri, delle sue volontà e gli diede la facoltà di operare e comandare sul particolare (il potere sulle creature terrestri) sul generale (il potere sulla terra stessa) e sull’universale (il potere sull’universo creato). Il Creatore fece sì che Adamo compisse queste tre operazioni (comandare al particolare, al generale e all’universale) in modo che, con esse, ricevesse la legge, il precetto e il comandamento. Con questo, Adamo aveva tutto ciò che gli era necessario per compiere il suo ruolo. Anche Adamo, come gli Spiriti Primi, aveva il libero arbitrio, necessario per le sue azioni e operazioni. Questo non significa che egli avesse facoltà di violare le leggi divine o disobbedire ai comandamenti del Creatore, ma solo che egli era libero di operare secondo il suo arbitrio per realizzare la sua opera.

Contemplando le opere fatte con le sue tre operazioni (quella particolare, quella generale, quella universale), Adamo si sentì grande e desiderò di aumentare la sua conoscenza dei pensieri del Creatore. Ma egli non poteva percepirli se non col consenso del Creatore stesso. Non potendo, quindi, approfondire la comprensione delle proprie operazioni per suo conto, Adamo finì con l’essere preso da pensieri disordinati. Tali pensieri furono percepiti e compresi anche dagli Spiriti perversi, che ne approfittarono.

Uno degli Spiriti perversi si presentò ad Adamo, sotto una forma gloriosa e luminosa, e lo invitò a usare il suo potere per i propri scopi e non per quelli del Creatore. Adamo cadde, in conseguenza del turbamento dato dai discorsi dello Spirito perverso, in uno stato di estasi animale, durante il quale il tentatore riuscì a insinuare in Adamo il suo pensiero malvagio.

Al suo risveglio, Adamo decise di compiere una quarta operazione, contraria alla volontà del Creatore:

Adamo operò dunque il pensiero demoniaco facendo una quarta operazione, nella quale usò tutte le parole potenti che il Creatore gli aveva trasmesso per le sue tre prime operazioni, sebbene avesse interamente rigettato il cerimoniale di queste stesse operazioni. Egli fece uso, con preferenza, del cerimoniale che il demonio gli aveva insegnato, come pure del piano che ne aveva ricevuto per attaccare l’immutabilità del Creatore. Adamo ripeté ciò che i primi spiriti perversi avevano concepito d’operare, per divenire creatori a scapito delle leggi che l’Eterno aveva loro prescritto per servire loro da limiti nelle loro operazioni spirituali divine. Questi primi spiriti non dovevano nulla concepire né intendere in materia di creazione, essendo solamente creatori di potenza, Adamo non doveva aspirare più che essi a questa ambizione di creazione d’esseri spirituali che gli fu suggerita dal demonio.[4]

Come fu per la prevaricazione degli Spiriti perversi, anche per Adamo, il Creatore non impedì le sue azioni, rispettando il suo libero arbitrio.  L’operazione di Adamo ne determinò però la caduta ed egli fu imprigionato in quello stesso mondo materiale di cui doveva essere il carceriere.

La colonna del quadro rappresenta, quindi, lo stato di Adamo, il quale dallo stato originario e glorioso (la colonna integra) è decaduto in uno stato di inferiorità e di privazione (la colonna spezzata).

Molto importante è però il fatto che la colonna sia ancora in piedi, nonostante tutto. Questo rappresenta la speranza e la possibilità della reintegrazione, del ritorno allo stato di grazia originario. L’uomo, infatti, mantiene tutte le potenzialità anche se i suoi poteri originali gli sono negati a causa della prevaricazione e della caduta.

Inoltre, anche se il collegamento col Creatore non è più diretto, ma deve essere mediato, esso permane. L’uomo, nel momento stesso della sua prevaricazione e caduta, si è reso conto del suo errore, a differenza dei Primi Spiriti perversi. Il suo pentimento non ha evitato la caduta e la punizione in questo mondo, ma ha fatto sì che Dio si riconciliasse con lui e gli desse la possibilità di compiere un percorso di reintegrazione. Pur nelle epoche più oscure della storia, Dio fa sì che permanga un resto di uomini giusti, depositari della retta via verso la reintegrazione. A questo si riferisce il profeta Geremia:

Da lontano gli è apparso il Signore:

«Ti ho amato di amore eterno,

per questo ti conservo ancora pietà.

Ti edificherò di nuovo e tu sarai riedificata,

vergine di Israele.

Di nuovo ti ornerai dei tuoi tamburi

e uscirai fra la danza dei festanti.

Di nuovo pianterai vigne sulle colline di Samaria;

i piantatori, dopo aver piantato, raccoglieranno.

Verrà il giorno in cui grideranno le vedette

sulle montagne di Èfraim:

Su, saliamo a Sion,

andiamo dal Signore nostro Dio»

Poiché dice il Signore:

«Innalzate canti di gioia per Giacobbe,

esultate per la prima delle nazioni,

fate udire la vostra lode e dite:

Il Signore ha salvato il suo popolo,

un resto di Israele».[5]

E San Paolo di Tarso nella sua lettera ai Romani:

Dio non ha ripudiato il suo popolo, che egli ha scelto fin dal principio. O non sapete forse ciò che dice la Scrittura, nel passo in cui Elia ricorre a Dio contro Israele?

Signore, hanno ucciso i tuoi profeti,

hanno rovesciato i tuoi altari

e io sono rimasto solo e ora vogliono la mia vita.[6]

Cosa gli risponde però la voce divina?

Mi sono riservato settemila uomini, quelli che non hanno piegato il ginocchio davanti a Baal.[7]

Così anche al presente c’è un resto, conforme a un’elezione per grazia. E se lo è per grazia, non lo è per le opere; altrimenti la grazia non sarebbe più grazia.[8]

Proprio l’accenno alla grazia della lettera ai Romani ben spiega il concetto: anche nel buio del mondo spirituale il Creatore mantiene sempre accesa una Luce della sua grazia, della sua benedizione, affinché chi desideri lavorare per la propria reintegrazione possa trovare gli strumenti necessari. A questo si riferiscono quindi la colonna spezzata e la scritta “adhuc stat”.

L’”adhuc stat” è uno dei più importanti simboli del Rito Scozzese Rettificato. Esso rappresenta al contempo il ricordo della caduta dell’uomo, che rende necessario il Lavoro per la reintegrazione, la facoltà dell’uomo di riuscirvi, la sua speranza e l’alleanza col Creatore, che nonostante le colpe dell’umanità, mantiene sempre un resto della sua grazia per Adamo e la sua discendenza.

Enrico Proserpio

[1] Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 27.

[2]Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagine 28 – 29.

[3]Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 30.

[4]Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, a cura di Ovidio La Pera, Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 35.

[5] Libro di Geremia, capitolo 31, versetti 3 – 7, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Riferimento al Primo libro dei Re, capitolo 19, versetti 10 – 14.

[7] Riferimento al Primo libro dei Re, capitolo 19, versetto 18.

[8] Lettera ai Romani, capitolo 11, versetti 2 – 6, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002. I corsivi sono presenti nel testo originale.