Considerazioni sui viaggi del candidato durante il Ricevimento al primo grado

La cerimonia di Ricevimento al grado di Apprendista del Rito Scozzese Rettificato prevede che il candidato compia, bendato e condotto per mano dal Secondo Sorvegliante, tre viaggi simbolici attorno al tempio.

Ogni viaggio porta il recipiendario a passare uno degli stadi successivi del percorso iniziatico del Rettificato, a incontrare un elemento e a ricevere una massima morale nell’ordine evidenziato nello schema sottostante.

Primo viaggio:

  • Elemento: fuoco;
  • Stadio: cercante;
  • Massima: “L’uomo è l’immagine immortale di Dio, ma chi potrà riconoscerla se egli stesso la sfigura?”.

Secondo viaggio:

  • Elemento: acqua;
  • Stadio: perseverante;
  • Massima: “Colui che arrossisce della religione, della virtù e dei suoi Fratelli è indegno della stima e dell’amicizia dei Massoni”.

Terzo viaggio:

  • Elemento: terra;
  • Stadio: sofferente;
  • Massima: “Il Massone il cui cuore non si apre ai bisogni e all’infelicità degli altri uomini è un mostro nella società dei Fratelli”.

Per quanto riguarda i tre stadi, essi prefigurano il percorso dei primi tre gradi. Ogni grado dell’Ordine, infatti, corrisponde a uno di essi, che ne costituisce, per così dire, l’essenza:

  • Apprendista: cercante;
  • Compagno: perseverante;
  • Maestro: sofferente.

L’Apprendista è descritto come “cercante”, poiché si è appena rivolto alla Loggia per iniziare il suo percorso ed è tutto intento alla ricerca della sua via. Non tratteremo qui gli altri due stadi, poiché ineriscono a gradi superiori. Nel Ricevimento al primo grado essi sono solo citati, come anticipazione di ciò che verrà e che si affronterà più avanti.

Discorso più complesso è quello che riguarda gli elementi e il loro collegamento con i viaggi. Si sarà certamente notato che il riferimento è a soli tre elementi (fuoco, acqua, terra) e non a quattro. Il sistema simbolico del Rettificato, infatti, considera solo questi tre. L’aria non vi è compresa, ma è ritenuta come derivante dagli altri tre elementi. Troviamo qui un’altra unicità del nostro Rito all’interno dell’alveo della Massoneria: gli altri Riti massonici che fanno riferimento agli elementi durante l’Iniziazione, si riallacciano al simbolismo ermetico che ne considera quattro. Si tratta solamente di un differente modo di rappresentare la realtà e non di una differenza sostanziale, come già diceva Saint-Martin in una lettera a Kirchberger:

[…] è possibile che ogni scrittore su questa materia possa aver attinto dalla sorgente, ma che tutti si esprimano differentemente. L’unico modo per superare il linguaggio è quello di considerare i principî. Per esempio, leggo ogni giorno in Jacob Böhme che vi sono quattro elementi; ma io sono geometricamente, numericamente, e metafisicamente certo che ce ne siano solo tre. Questo non impedisce di comprenderci, perché vedo che la nostra differenza è solo nel linguaggio.[1]

L’origine del simbolismo dei tre elementi non è certa. Vi si può vedere una certa influenza ebraica e qabbalistica, ma solo lontana e “riadattata”. Nel “Libro della Formazione” (Sepher Jetsirah), uno dei testi qabbalistici più antichi, si parla di tre elementi costituenti la materia, ma essi sono fuoco, aria, acqua. Se il simbolismo martinezista viene da qui (il che è possibile, viste le origini ebraiche del filosofo francese), esso si è modificato nell’adattarsi al nuovo sistema e delle sue origini ha conservato solamente il numero degli elementi.

Facciamo notare il riferimento alla certezza “geometrica” che il Saint-Martin esprime nella lettera sopra citata: egli fa riferimento alla dottrina martinezista, che vedeva nel triangolo equilatero la forma simbolica del “tempio generale terrestre”[2], ovvero di questa terra. Un discorso che si fa ancor più necessario quando ci si riferisce ai punti cardinali, così come sono concepiti e collegati agli elementi nella dottrina di Martinez de Pasqually. Il triangolo terrestre ha tre vertici, corrispondenti a tre “direzioni” o punti cardinali (Nord, Sud, Ovest), collegati ai tre elementi secondo lo schema qui sotto riportato:

  • Nord: acqua;
  • Sud: fuoco;
  • Ovest: terra.

Si noterà, però, che nel tempio e sul tappeto di Loggia si vedono rappresentati i quattro soliti punti cardinali e non solamente i tre dello schema martinezista. Non si tratta di una contraddizione, ma di una questione di diversi livelli di esistenza: i quattro punti cardinali del tappeto di Loggia indicano il nostro mondo materiale, nel quale viviamo e operiamo. I tre vertici del triangolo martinezista rappresentano invece un livello spirituale che come tale va interpretato e compreso.

Nel momento in cui il candidato tocca l’elemento che si trova alla fine del suo viaggio, il Fratello Introduttore, che lo segue per tutta la parte della cerimonia di Ricevimento che si svolge nel tempio, pronuncia un motto che accenna al simbolismo dell’elemento stesso, mostrandone il duplice aspetto di utile strumento e di pericolo a seconda dell’uso che se ne fa.

Ecco i tre motti:

  • Il fuoco consuma la corruzione, ma divora l’essere corrotto;
  • È attraverso la dissoluzione delle cose impure che l’acqua lava e purifica, ma essa cela le loro influenze funeste e i principi della putrefazione;
  • Il grano messo nella terra vi riceve la vita, ma se il suo germe è alterato, la terra ne accelera la putrefazione.

È innegabile una certa influenza ermetica sulla stesura di questi motti. Il richiamo alla putrefazione e alla necessità di purificazione non lasciano dubbi. Anche qui, però, si tratta di un’influenza adattata al sistema simbolico del Rettificato e non un inserimento di elementi alchemici ed ermetici tout court.

Le tre massime che il Maestro Venerabile pronuncia dopo ogni viaggio sono in apparenza semplici motti morali, ma sono in realtà concetti fondamentali che dovrebbero guidare la vita del Massone rettificato.

La prima invita il candidato (e tutti i Fratelli con lui) a non “sfigurare” col vizio l’immagine di Dio che l’uomo è. In essa si trova anche un riferimento chiaro, benché non approfondito, al concetto di uomo creato a “immagine e somiglianza” di Dio, che possiamo vedere come un ulteriore invito a studiare la religione cristiana e le Scritture.

La seconda avverte che nessun percorso spirituale può essere portato avanti se ci si vergogna del percorso stesso e dei propri compagni di strada. È necessario che il Massone sia ben convinto della via che ha intrapreso, o meglio farebbe a fermarsi.

La terza fa invece riferimento al dovere di “beneficienza”, ovvero al dovere che ogni Massone ha di lavorare al miglioramento dell’Umanità intera.

Speriamo di aver dato, con queste poche parole, qualche utile spunto di riflessione e approfondimento sul ricchissimo simbolismo del Rito Scozzese Rettificato.

Enrico Proserpio


[1] Questo brano della lettera a Kirchberger di Louis-Claude de Saint-Martin è citato, in una nota al testo, nella presentazione al libro “L’uomo di desiderio”, nell’edizione Jouvence, Milano, 2015, pagina 8.

[2] Si veda Martinez de Pasqually, “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”, capitolo 69.

La camera di ritiro

La camera di ritiro o camera di preparazione è il primo luogo con cui il candidato viene a contatto una volta che chiede, “bussando”, di essere iniziato alla Massoneria.

La camera di ritiro deve essere un luogo scuro, con finestre ben chiuse e lontano dalle camere più importanti della Loggia. Disposto in tale modo per poter difendere il candidato da distrazioni esterne che deve ignorare. La sacralità della stanza sarà ben custodita da un Fratello Guardiano.

L’illuminazione del locale viene data da una lampada, o un candeliere, posati su una scrivania. Una luce fioca che permette al candidato di osservare alcuni oggetti.

In ordine sono presenti:

  • Un quadro con lettere gialle su sfondo nero;
  • Un quadro con una testa di morto sopra a due ossa incrociate di colore argento su sfondo nero e delle istruzioni;
  • Una Bibbia con l’antico e il nuovo testamento;
  • Un quadro contenente delle sentenze;
  • Un campanello per chiedere aiuto, se necessario;
  • Un foglio con scritte le tre domande preparatorie, le cui risposte formeranno il testamento;
  • Un portaoggetti dove riporre metalli e gioielli del candidato;
  • Una brocca piena d’acqua;
  • Una benda nera.

Nel primo quadro il candidato troverà su sfondo nero delle riflessioni di colore giallo. Esse sono volte a far meditare con particolare attenzione alle seguenti tematiche: non credere di essere soli nella solitudine in cui ci si trova; ritirarsi in se stessi per vedere se esiste un essere al quale dobbiamo l’esistenza e la vita; cercare di riavvicinarsi a questo essere superiore, desiderandolo e sottomettendoci alle sue leggi; che per raggiungere questo traguardo felice bisogna essere disposti a compiere un lavoro penoso e sofferto; di prendere coraggio, perché queste pene saranno passeggere e la ricompensa assicurata; che la giustizia pretende questo duro lavoro scegliendo bene e considerando lo stato miserabile e tenebroso in cui ci si trova e la luce che ci viene promessa. Se si decide di dedicarsi generosamente a questo difficile percorso ci verrà data una guida fidata che ci proteggerà dai pericoli.

Il secondo quadro simboleggia la morte del profano. Cerca di insegnargli a spogliare il “vecchio uomo” e prepararlo a una nuova nascita spirituale, a una trasmutazione. Sopra la testa di morto c’è scritto: “Tu ti sei sottomesso alla morte” mentre sotto le ossa: “La vita era contaminata, ma la morte ha riparato la vita”.

La Bibbia è posta per essere studiata con cura, far propria la dottrina e le verità che offre per fortificare gli uomini. La Bibbia verrà poi usata in diversi momenti specifici durate il Ricevimento.

Su alcuni fogli sono presenti le seguenti sentenze: “Se la curiosità ti ha condotto qui, vattene”, “Se la tua anima ha provato spavento, non andare oltre” e “Se perseveri, sarai purificato dagli elementi, uscirai dall’abisso delle tenebre, vedrai la luce”. Nel rito Scozzese Antico e Accettato troviamo anche la parola “VITRIOL” che significa “Visita l’interno della terra e, rettificando, troverai la pietra occulta” ed è un invito alla ricerca della stessa anima nel silenzio e nella meditazione. Si potrebbe descrivere questo cambiamento di stato con una metafora: dalla decomposizione di un guscio di crisalide in sonno uscirà una meravigliosa farfalla.

Le tre domande preparatorie sono volte a far raccogliere il candidato in sé stesso per rispondere sinceramente, farsi ammettere e illuminare dall’ordine massonico. Da un punto di vista filosofico le tre domande dovrebbero essere queste: “Da dove veniamo? Chi siamo? Dove andiamo?” da cui si può ritrovare il ternario “passato, presente e futuro”.

La prima domanda chiede se crediamo nell’esistenza di un Dio creatore e cosa pensiamo della religione Cristiana. La seconda invece chiede che idea abbiamo della virtù (virtù considerata nei rapporti che abbiamo con Dio e la religione, con noi stessi e gli altri). La terza si riferisce alla nostra opinione sui veri bisogni degli uomini e come possiamo esser loro più utili.

Rispondere a queste domande non è per niente semplice poiché esse costituiranno il testamento del candidato che dovrà testimoniare le proprie intenzioni filosofiche perché, come dice Louis Claude de Saint Martin, l’uomo è il vero tempio e possiede in sé stesso i candelabri, l’altare sacrificale, i profumi e le offerte, l’ara e il fuoco[1].

Il portaoggetti è necessario per l’introduzione del candidato in Loggia. Egli dovrà spogliarsi di tutti i metalli, del denaro e dei gioielli poiché si dice che i metalli possano impedire il flusso delle correnti magnetiche. Tale movimento simbolico è volto a insegnare che tutto si paga al mondo e per poter ricevere si deve prima dare: deve essere un abbandono delle idee preconcette dato che proprio i metalli rappresentano le cose che brillano di una luce ingannevole, che è una ricchezza illusoria della quale un saggio non si cura.

I metalli verranno restituiti una volta che il candidato avrà effettuato tutto il percorso e ricevuto finalmente la luce.

La via iniziatica conduce all’illuminazione e, per fare questo, il candidato troverà una benda, possibilmente di colore scuro, nero. Si pensa che la benda sia uno dei simboli elementari ma, in realtà, è uno dei più profondi della Massoneria: il candidato dovrà acconsentire a indossarla per poter procedere all’ingresso in Loggia poiché, essendo stato nelle tenebre, dovrà fidarsi del Sorvegliante, che è colui che cammina nella luce e gli permetterà di non smarrirsi. Non dobbiamo mai dimenticare che, una volta caduta la benda dagli occhi, la luce è alla fine del cammino. 

Leggendo un’opera del rituale di iniziazione mi piace riprendere uno spunto che condivido con voi: “A tutta questa serie di simboli psicologici si aggiunge la scoperta di un nuovo mondo fatto di simboli prettamente esoterici che il profano non conosce. Tra le varie fasi ammonitrici dipinte sul muro, una lo avverte che se persevererà sarà purificato, verrà fuori dall’abisso delle tenebre e verrà la luce. In questa frase si riassume e anticipa tutto ciò che il recipiendario si appresta a vivere. La luce a cui si fa riferimento non è ovviamente la luce solare, ma un’allegoria della capacità di vedere il mondo con nuovi occhi, perché la materia prima su cui l’apprendista libero muratore dovrà costantemente lavorare per trasformare i suoi vizi in virtù è la sua stessa mente/anima che dovrà raggiungere uno stato di consapevolezza superiore risvegliandosi a un nuovo livello di coscienza”.

Ricordo che al mio Ricevimento cercavo di dare una spiegazione a tutta questa preparazione. Da profano era difficile comprendere, ma pian piano, mattone dopo mattone, riesco a trovare delle risposte anche se so bene che nonostante questo per poter raggiungere quello stato di conoscenza la strada è infinita.

Andrea B.


[1] Si veda Juole Boucher, “La simbologia massonica”, edizioni Atanòr, Roma, 2003, pagina 32.

La fratellanza nella Libera Muratoria

La fratellanza è, senza ombra di dubbio, uno dei valori cardine della Libera Muratoria, quale che sia il Rito preso in considerazione. Poiché, però, apparteniamo al Rito Scozzese Rettificato, cercheremo di declinare la questione in considerazione del suo simbolismo e della sua dottrina. Partiremo, quindi, da Martinez de Pasqually e Sant’Agostino per poi analizzare la questione con l’ausilio del prezioso scritto di Sant’Aelredo di Rievaulx intitolato “De spiritali amicitia[1].

Partiamo dunque dal mito della caduta di Adamo, il quale, come abbiamo visto nella tavola sull’”Adhuc stat”, è centrale nella simbologia del Rettificato e particolarmente in quella del primo grado. Adamo disobbedisce agli ordini di Dio e, tentato dagli spiriti perversi che avrebbe dovuto dominare, cerca di creare una sua creatura attraverso un’operazione disordinata e blasfema. Egli così si sporca e si contamina e precipita nel mondo perdendo quello stato di gloria che gli era proprio e, con esso, il contatto diretto col Creatore.

Questo mito adombra un concetto importante: l’unione di tutti gli esseri umani in un solo grande essere spirituale (l’Adam Qadmon della Qabbalah) di cui ognuno è parte. Anche Sant’Agostino ipotizza che possa essere così, il che renderebbe tutti gli esseri umani in qualche modo colpevoli:

[…] se è stata creata una sola anima, da cui sono derivate quelle di tutti gli uomini che nascono, chi può dire di non aver peccato quando il primo ha peccato?[2]

Adamo, dopo aver peccato, comprende subito il suo errore e, per questo, Dio gli dà la possibilità della riconciliazione e della reintegrazione nel suo stato di gloria. Fin da subito Dio fa sì che nel mondo vi siano segni del futuro a venire, utili al progresso spirituale dell’uomo. Gli eventi, le persone, perfino le cose divengono così dei “tipi”, delle rappresentazioni sia degli eventi passati che delle promesse future. Ecco un esempio tratto dal “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”: secondo la narrazione di Martinez de Pasqually, Dio mandò un suo emissario per istruire Adamo ed Eva, spiegando loro il significato della nascita e morte di Abele:

Il Creatore vi dice per mezzo della mia parola che voi non avete l’uno e l’altra prodotto questa posterità di Abele se non per essere il vero tipo di colui che verrà in un tempo per essere il vero e l’unico riconciliatore di tutta la posterità d’Adamo.[3]

Abele, quindi, diviene “tipo” del Cristo, che, come lui, nascerà e morirà per i peccati dell’Umanità.

La fratellanza massonica è dunque l’unione di tutti gli esseri umani? Essa coincide con la fratellanza umana? La risposta è no. L’essere umano, parlando in generale, oggi non ha ancora uno stato di evoluzione spirituale sufficiente a renderlo consapevole di questa profonda unione tra gli individui e per questo si rende ancora necessaria l’esistenza di persone dedite alla ricerca spirituale in vista della reintegrazione. I Liberi Muratori sono senza dubbio tra queste. Tra i Liberi Muratori c’è un legame particolare, frutto di una comune Iniziazione e di un comune fine. E anche se non tutti coloro che sono stati ricevuti in una Loggia sono in grado di percepirne il profondo significato e la profonda potenza, tale legame lavora in essi affinché la fratellanza massonica divenga il tipo di quella umana che verrà e i Massoni possano divenire quell’esempio di virtù e di alta spiritualità che dovrebbero essere.

Per approfondire il concetto di fratellanza massonica, come abbiamo accennato, ci rifaremo al “De spiritali amicitia” di Sant’Aelredo di Rievaulx. L’autore tratta dell’amicizia più profonda e spirituale, che è cosa ben diversa da quella comunemente intesa e possiamo dire, senza tema di smentita, che l’”amicizia spirituale” di Aelredo è sostanzialmente lo stesso concetto della fratellanza massonica. L’unica differenza è il contesto: Aelredo parla del profondo rapporto che si instaura tra chi crede profondamente in Cristo e su lui fonda anche l’amicizia con gli altri esseri umani, noi invece trattiamo della fratellanza tra coloro che seguono la via latomistica. In entrambi i casi a sostegno dell’amicizia-fratellanza c’è un comune sentire e un’unione che viene anche dall’esterno (dall’eggregoro, direbbero certi esoteristi), che aiuta l’uomo a superare le difficoltà:

L’amicizia spirituale dunque viene generata dalla somiglianza di vita, di costumi e di aspirazioni tra persone buone […].[4]

Fondamentale è il fatto che le persone coinvolte siano “buone”. Non è vera amicizia (o fratellanza) se si è solidali nel vizio:

[…] si arrogano lo splendido titolo dell’amicizia quelli fra cui è in atto la connivenza nei vizi; poiché chi non ama non è amico; né ama sicuramente l’uomo chi ama l’iniquità. «Chi» infatti «ama l’iniquità» non ama, bensì «odia la propria anima». Ora, chi non vuole bene alla propria anima non può tanto meno amare l’anima altrui.[5]

Dove invece le intenzioni sono buone e il legame sincero:

Ove l’amicizia è così, là certamente esiste il «volere e non volere la stessa cosa», e tanto più dolce quanto più sincero, tanto più delizioso quanto più santo. Ove ci si ama così, non è possibile volere qualcosa di sconveniente, non volere ciò che è davvero utile.[6]

Perché l’amicizia spirituale è legata strettamente alle virtù (in particolare alle virtù cardinali, che sono importanti anche per il nostro Rito):

Tale amicizia è diretta dalla prudenza, retta dalla giustizia, custodita dalla fortezza e regolata dalla temperanza.[7]

Anche in Massoneria troviamo concetti molto simili. Ecco un breve stralcio del “Catechismo sulla solidarietà massonica” riportato nel libretto dei rituali di una delle maggiori Obbedienze italiane (di Rito Scozzese Antico e Accettato):

Domanda: Si dice che la Massoneria procuri, a coloro che vi si associano, vantaggi morali e materiali. Che cosa ne pensate?

Risposta: Tale asserzione non risponde alla verità dei fatti. Il profitto materiale è assolutamente escluso per chi appartiene alla Massoneria. Il vantaggio morale non può ricercarsi che nella fermezza del carattere che è una conseguenza dell’elevarsi ad alte idealità.

Domanda: Come potete ciò affermare? Non dovete voi favorire sempre ed in qualsiasi maniera i Fratelli dell’Ordine?

Risposta: No. Gli Statuti m’insegnano di essere umano, sincero, giusto. Se favorissi un Fratello, per la sola ragione che è Fratello, non sarei giusto.

E poco più avanti:

Domanda: Dato che sedeste in un consesso deliberante, in una carica pubblica, non conferireste la preferenza ad un Fratello, anziché ad un profano?

Risposta: Gli Statuti dell’Ordine e le Costituzioni mi obbligano di proteggere i Fratelli nel limite del giusto e dell’onesto. Non sarei giusto e molto meno onesto se preferissi con il voto il meno degno.

Ovviamente non possiamo pensare che ogni Massone provi sentimenti di tale profondità verso tutti i Fratelli. La fratellanza deve quindi essere vista come un fine da raggiungere, un ideale, un faro che deve guidare la nostra azione nei confronti degli altri Massoni e non solo. Inoltre, essa ci deve insegnare alla disponibilità nei confronti dell’altro, tanto nel fornire aiuto e consiglio quando necessario, quanto nel ricevere insegnamenti e correzioni che ci aiutino a sgrossare la nostra pietra grezza, per contribuire alla costruzione del Tempio celeste, di quella Gerusalemme Celeste dell’Apocalisse di Giovanni che altro non è se non la reintegrazione dell’’Umanità nel suo stato di gloria.

Enrico Proserpio


[1] Il testo si trova facilmente, sia in edizioni cartacee che on line. Il titolo è solitamente tradotto come “L’amicizia spirituale” o “La perfetta amicizia”.

[2] Sant’Agostino, “Il libro arbitrio”, Città Nuova Editrice, Roma, 2019, pagina 235.

[3] Jacques Martinez de Pasqually, “Trattato sulla reintegrazione degli esseri”, edizioni Libreria Chiari, Firenze, 2003, pagina 91.

[4] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 67.

[5] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 59.

[6] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 67.

[7] Aelredo di Rievaulx, “La perfetta amicizia”, Servitium editrice, Sotto il Monte (BG), 2005, pagina 67.

Considerazioni sull’esame dei profani che bussano alle porte del Tempio

Uno dei temi su cui la Massoneria attuale ha le idee meno chiare è quello dell’esame dei candidati a essere ricevuti, o iniziati (i bussanti). Tanto per cominciare, chiariamo una questione terminologica: il termine “tegolatura” viene usato, nel caso dell’esame dei candidati, in modo improprio. La tegolatura è l’esame dei Fratelli visitatori, che dovrebbe avvenire in modo rituale, chiedendo le parole e i toccamenti del grado. Per svolgere tale compito in alcuni Riti (come lo Scozzese Antico e Accettato) esiste un’apposita figura: il Tegolatore. Per l’esame dei candidati, invece, il Maestro Venerabile nomina ogni volta dei Maestri (tra i quali non dovrebbe essere incluso il Fratello che propone il candidato), i quali non dovranno sapere l’identità l’uno dell’altro e dovranno esaminare il candidato in maniera automa e indipendente. I Maestri incaricati scriveranno poi una relazione anonima che sarà letta in Loggia onde permettere ai Fratelli di avere gli elementi necessari a decidere se votare a favore, o contro, l’ammissione del candidato. I nomi dei Fratelli esaminatori devono essere sconosciuti alla Loggia per garantire che il giudizio dei Fratelli non sia influenzato da eventuali simpatie, o antipatie, nei confronti degli esaminatori. Per lo stesso motivo gli esaminatori dovranno essere sconosciuti l’uno all’altro.

Per dare i giusti elementi ai Fratelli, affinché possano decidere come votare, gli esaminatori dovranno chiarire con il candidato alcuni punti fondamentali:

  • Gli impegni e gli obblighi che l’appartenenza alla Loggia comporta;
  • La struttura della Massoneria, l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia e un quadro generale sulle altre Obbedienze;
  • Lo scopo del percorso libero-muratorio;
  • L’infondatezza di certe voci e dicerie sulla Massoneria;
  • I valori fondamentali della Libera Muratoria, ai quali il candidato, una volta ricevuto (o iniziato) dovrà allinearsi;
  • Alcuni accenni al Rito particolare che la Loggia pratica.

Nel caso delle Logge di Rito Scozzese Rettificato, gli esaminatori avranno cura di sincerarsi della fede cristiana del candidato e del suo essere stato battezzato. Quale sia la confessione del candidato (cattolico romano, ortodosso, protestante…) è irrilevante ai fini del Ricevimento e, quindi, dell’esame.

Entriamo più nel dettaglio dei temi elencati sopra.

Prima di tutto l’esaminatore dovrà illustrare al candidato quali saranno i suoi impegni e i suoi obblighi nei confronti della Loggia, ovvero la partecipazione alle Tornate (chiarendo l’entità di questo impegno, in quale giorno si riunisce la Loggia, quanto durano le Tornate…) e il pagamento delle capitazioni, l’importo delle quali dovrà essere detto chiaramente. In questo modo si eviterà che il candidato abbia da ridire sui costi, o si lamenti dicendo che non sapeva di dover pagare, o quanto fosse impegnativa la partecipazione alle Tornate.

È di primaria importanza anche spiegare al candidato la struttura della Massoneria, l’eventuale appartenenza della Loggia a un’Obbedienza e l’organizzazione, a grandi linee, della stessa. È fondamentale spiegare che l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia non è l’unica esistente e chiarire quali caratteristiche la differenziano dalle altre. Mi è capitato un bussante che aveva chiesto di entrare in Loggia credendo che essa appartenesse al Grande Oriente d’Italia (che pensava fosse l’unica Obbedienza italiana). Ricevere questo candidato sarebbe stata una perdita di tempo da parte sua e nostra. Altri invece preferiscono Obbedienze miste (che accettano cioè sia uomini che donne) a quelle unicamente maschili o femminili. Sarà quindi necessario mettere in chiaro se l’Obbedienza a cui appartiene la Loggia è mista o meno. Se il candidato esprimesse la necessità di entrare in un’Obbedienza con caratteristiche differenti da quella a cui appartiene la Loggia, sarà un atto di gentilezza da parte dell’esaminatore l’indicargli eventuali altre Obbedienze più adatte alle sue esigenze.  

Altro punto fondamentale è chiarire quale sia lo scopo del percorso libero-muratorio e quale sia il modo in cui la Massoneria lo persegue. Deve essere chiaro che la Libera Muratoria è un Ordine che dà ai suoi membri il modo di seguire un percorso di tipo spirituale, volto a perfezionare se stessi e l’Umanità attraverso un sistema di simboli e ritualità che procede per gradi. A tal proposito è strettamente necessario smentire le voci su presunti complotti massonici o sul fatto che l’appartenenza massonica apra le porte per far carriera o per la scalata sociale. Capita spesso che delle persone facciano richiesta di entrare in Loggia per questi motivi materiali. Costoro potrebbero, qualora fossero accettati, essere un pericolo per la salute della Loggia, essendo portatori di quei “metalli” che il Massone dovrebbe invece abbandonare prima di entrare nel Tempio. Allo stesso modo bisogna chiarire che nelle Logge non si trovano strani rituali magici per ingraziarsi chissà quale entità e indurla a farci guadagnare soldi o altri beni materiali, o “verità arcane” su alieni, illuminati o altre corbellerie. Per esperienza personale so che candidati convinti di trovare cose del genere capitano spesso. Uno mi disse che voleva far carriera e dopo che gli ebbi spiegato che in Massoneria non c’era modo di farla, ritirò la candidatura. Un altro era convinto che noi avessimo “poteri” magici e che potessimo insegnargli incantesimi per vincere alla lotteria. Ci vuole quindi molta chiarezza e molta prudenza nell’esaminare i candidati.

Passiamo ora a una questione oggi molto sottovalutata e che spesso genera discussioni: i valori fondamentali che informano di sé tutta la Libera Muratoria, anche se non tutti i Riti li dichiarano palesemente nella ritualità.

Differentemente da quanto molti Massoni oggi credono, la Massoneria non è un contenitore neutro dentro cui ognuno può mettere i suoi propri valori e il suo proprio pensiero. Tale idea è stata generata da un mal digerito discorso sulla “libertà di pensiero” intesa come un semplicistico e qualunquista “penso e dico quel che mi pare”. La Massoneria da sempre propugna la libertà di pensiero, la tolleranza e il rispetto per l’altro. Ma, paradossalmente, tale libertà e tolleranza non posso esistere senza che si pongano dei limiti ben precisi, pena il permettere che i più prepotenti impongano a tutti la loro propria volontà, di fatto ponendo fine sia alla libertà che alla tolleranza. Ma dove porre il confine di ciò che è lecito? Il limite alla tolleranza è l’intolleranza: il pensiero intollerante non può essere accettato all’interno della Massoneria, essendo esso massimamente contrario ai suoi valori fondamentali. Al candidato dovrà essere ben spiegato che la Massoneria considera le persone come libere, eguali e come unite da un legame di fratellanza che va oltre la stessa Libera Muratoria. In questo consiste l’universalità della Massoneria. Come potrebbe un razzista abbracciare come suo Fratello un uomo appartenente a un’etnia che egli ritiene “inferiore”, o addirittura “malvagia”?

Idee e comportamenti intolleranti non possono essere accettati in Loggia e il Maestro esaminatore dovrà farlo capire molto chiaramente al candidato. Dentro il limite, poi, del reciproco rispetto e della reciproca tolleranza, sarà possibile la libertà di pensiero necessaria al percorso massonico.

Su questo punto mi si permetta di porre in evidenza un errore che molte Logge fanno, ovvero quello di non accettare delle persone perché troppo “diverse” dai Fratelli che compongono la Loggia. Si formano così, in nome di un mal inteso senso di “armonia”, Logge di Fratelli tutti simili fra loro per classe sociale, livello e formazione culturale, perfino per professione e idee politiche. Questo è quanto di più sbagliato: il percorso massonico ha nel confronto con l’altro, con visioni diverse dalla propria, uno dei maggiori strumenti di perfezionamento. Anche, e forse soprattutto, il confronto con chi ci pone davanti a cose che ci danno fastidio o che mettono a nudo i nostri limiti e difetti è fondamentale. Del resto lo sgrossamento della pietra grezza, che è simbolo del lavoro massonico, non è qualcosa che si faccia con delicatezza, ma con forza e fatica. Accettare solo candidati simili ai Fratelli significa privarli di un utilissimo strumento e rendere meno efficace il lavoro di Loggia. L’esaminatore dovrà, quindi, da una parte, tener ben presenti i valori fondamentali e i limiti da essi posti, ma dovrà anche, dall’altra, stare attento a non farsi influenzare dalle proprie idee particolari e dai propri pregiudizi, restando il più possibile “obiettivo”. Anche per questo il ruolo di esaminatore è riservato ai Maestri i quali, si presume, dovrebbero avere la necessaria conoscenza ed esperienza per esaminare nel giusto modo il candidato. Il fatto, poi, che gli esaminatori debbano essere più di uno (solitamente tre) e indipendenti permette di garantire che le eventuali sviste dell’uno siano compensate dall’altro.

Infine, l’esaminatore dovrà spiegare a grandi linee le caratteristiche del Rito che la Loggia pratica. Ogni Rito ha una sua propria “anima” e un carattere che lo contraddistingue. Bisognerà quindi capire se il candidato sia in cerca di ciò che il Rito della Loggia può dargli, o se cerca qualcosa di diverso. Molte Obbedienze hanno Logge di diversi Riti e il candidato potrebbe essere indirizzato verso una Loggia che pratichi un Rito più adatto alle sue esigenze. Soprattutto Riti (come il Memphis e Misraïm, o lo Scozzese Rettificato) connotati da un approccio più esoterico e spirituale possono non essere adatti a tutti. L’esaminatore spiegherà quindi al candidato le caratteristiche del Rito e, in termini generali, i suoi contenuti e in base alla risposta lo indirizzerà nel migliore dei modi. Capita a volte che l’esaminatore cerchi di convincere il candidato a entrare nella sua Loggia anche quando questo non si presenta come adatto al tipo di ritualità e all’approccio proprio di quel Rito particolare, o quando il candidato desidererebbe entrare in un’Obbedienza di diverso tipo. Questo è un errore da evitare accuratamente, anche se la Loggia avesse bisogno di aumentare il numero dei suoi componenti. Far entrare in Loggia una persona non adatta non porta nulla di buono. Questa persona con tutta probabilità se ne andrà presto, o, nel peggiore dei casi, creerà disarmonia o porterà negatività (come capita quando si introducono carrieristi e arrivisti).

Concludo esprimendo la speranza che questa tavola possa essere utile ai Fratelli incaricati di esaminare i candidati. Gli argomenti sono stati trattati solo per sommi capi e potrebbero sicuramente essere ampliati. Credo però che i Maestri sapranno utilizzare quanto scritto declinandolo secondo le loro proprie esperienza e sensibilità.

Enrico Proserpio

Il Coccodrillo: romanzo di L.C. de Saint-Martin

Coloro che si dedicano all’esoterismo cristiano conoscono le opere di Louis Claude de Saint-Martin. Tra queste, però, ce n’è una che sicuramente, e ingiustamente, è trascurata. Si tratta del suo romanzo, diviso in centodue canti, “Il Coccodrillo”, uscito nel 1799, opera narrativa dal profondo valore allegorico e iniziatico.

La copertina del libro.

Il Coccodrillo è un mostro millenario, un’enorme creatura oscura la cui coda è incatenata sotto la grande piramide, in Egitto, ma il cui corpo può allungarsi indefinitamente e raggiungere ogni luogo dell’universo. Egli ha imprigionato le scienze, assoggettandole alla propria volontà e traviandole per gettare l’umanità nelle tenebre dell’ignoranza e dell’errore.

Ma all’opera del Coccodrillo si oppone quella della Società degli Indipendenti, persone illuminate, guidate da Madame JOF, che segretamente impediscono al male di sopraffare l’umanità. Essi danno agli uomini di buona volontà i mezzi per combattere le tenebre e l’aiuto necessario.

Tra queste persone di buona volontà ci sono l’Israelita Eleazar e sua figlia Rachele, il nobile Sedir, ufficiale di polizia di Parigi e il volontario Ourdeck. Quando il Coccodrillo manderà i suoi scagnozzi (l’uomo magro e la donna grassa) ad assoldare il facinoroso Roson per scatenare il disordine nella capitale francese, essi si alleano e si oppongono ai suoi piani.

Tra attacchi magici, miracoli, prodigi di ogni genere, il saggio Eleazar e i suoi prodi alleati riusciranno a sconfiggere il Coccodrillo e a incatenarlo del tutto sotto la piramide.

Il testo non si pone come un semplice romanzo fantastico. Anzi, lo scopo è chiaramente didascalico, iniziatico. Oltre alla narrazione degli eventi troviamo dissertazioni filosofiche che ne spiegano il senso (pur sempre in modo allegorico) in modo che chi ha orecchie per intendere, intenda. Gli stessi personaggi sono strutturati in modo da descrivere i vari tipi umani e, al contempo, il percorso iniziatico. Il ribelle Roson, per esempio, è l’uomo totalmente in preda alle passioni e ai vizi e che, quindi, non riesce a non commettere il male. Ecco come egli riassume i suoi ultimi dieci anni a Rachele:

Uscito dalla Spagna dieci anni fa, grazie al vostro aiuto, mi rifugiai in Portogallo dove prestai servizio per quattro anni nella cavalleria. Avevo un ottimo capitano, ma ebbi un alterco con lui e lo uccisi. Mi rifugiai in un convento di Geronimiti a Lisbona, dove rimasi per alcune settimane come converso. Dovetti ancora sloggiare di là in quanto fui obbligato ad uccidere il dispensiere che si rifiutava di darmi da bere quando avevo sete.[1]

E il racconto dei misfatti continua. Roson rappresenta l’uomo malvagio e irresponsabile, il quale, nonostante abbia modo di accedere alla conoscenza e di praticare le virtù (Roson conosce Eleazar fin da bambino) le rifiuta e preferisce seguire il male, giustificandosi come se non fosse colpa sua (fui obbligato ad uccidere…).

I buoni, invece, rappresentano le diverse fasi e i diversi stati di consapevolezza del percorso iniziatico. Eleazar è il saggio, colui che è avanti nel percorso e ha raggiunto uno stato di grande saggezza (anche se non ancora completa) grazie al suo lavoro e ai suoi valori morali. Sedir è l’uomo buono, virtuoso, giusto, ma ancora non consapevole. Egli comincerà ad aprire gli occhi grazie a Eleazar e si incamminerà sulla via dello Spirito. Ourdeck è invece il giovane volonteroso, ma ancora passionale e incostante. In tutto ciò Rachele, la figlia di Eleazar, sembra rappresentare la Virtù, che accompagna e sostiene i tre.

l’autore, Louis Claude de Saint-Martin.

Senza entrare troppo nella trama e nei contenuti del libro (lascio al lettore il piacere di scoprirli) vorrei segnalare alcuni passi che ho trovato particolarmente interessanti e ben scritti.

Il primo è l’attacco che il Coccodrillo porta, con i suoi poteri, agli accademici francesi (per i quali l’autore non dimostra molta stima, descrivendoli come ciechi tronfi che si credono illuminati, scambiando arrogantemente le loro false concezioni per vera scienza). Egli trasforma tutti i libri in una poltiglia grigiastra e manda delle nutrici a imboccare questi dottori, facendo loro mangiare quel liquame. Gli accademici cominciano così a fare discorsi sconclusionati, senza capo né coda, mischiando concetti e idee, assorbiti mangiando i libri, che non hanno nessuna attinenza l’uno con l’altro: una sorta di parabola su cui dovrebbero riflettere quei Massoni che mischiano di tutto, prendendo un concetto qua e uno là e introducendo il tutto (ben mescolato, salato e pepato) in Loggia, dandosi arie da persone colte e di alta spiritualità.

Altro passaggio molto bello è il viaggio di Ourdeck all’interno del Coccodrillo, dopo esserne stato divorato insieme all’armata dei ribelli (servi del Coccodrillo) e a quella dei difensori della città. Durante questo viaggio egli giunge nella città di Atlante, la quale è stata sepolta secoli prima sotto una cupola di detriti e si è conservata alla perfezione. Egli così non solo può vedere gli abitanti, come congelati nelle loro attività, ma può anche leggere le parole che essi stavano dicendo, rimaste scritte nell’aria. Da questa esperienza Ourdeck trarrà molti insegnamenti (e il lettore con lui). Anche qui il Saint-Martin ci fa notare la vanità dei grandi discorsi e delle vuote parole. Il giovane giunge, infatti, nella casa di un professore che detiene la cattedra del silenzio:

Il professore teneva, come Arpocrate, il primo dito della mano destra sulla bocca; cosa che mi indicò che insegnava il silenzio e che, non parlando né di lui né dei suoi discepoli, offriva l’esempio del suo insegnamento.

Dopo alcuni minuti di riflessione su questa particolarità, stavo per andarmene, visto che non potevo leggere niente, né sulla carta né nell’aria. Ma proprio mentre mi allontanavo incominciai a percepire delle cose straordinarie che attirarono la mia attenzione. Più le osservavo più si sviluppavano e diventavano vive sotto i miei occhi; in modo che ben presto tutto l’appartamento si riempì di prodigi incredibili e sui quali gli occhi dei presenti erano fissi così attentamente che di sicuro il sonno non poteva entrare in quella sublime scuola, come invece succede di fronte a certi oratori.[2]

E aggiunge poi una considerazione che ben si addice al segreto massonico:

Non vi riferirò a questo punto quali sono queste meraviglie e queste conoscenze, perché dovrei parlarne per potervele riportare. Poiché io le ho apprese attraverso il silenzio, credo che anche per voi sia possibile apprenderle solo attraverso il silenzio.[3]

In sostanza, il Saint-Martin pone l’accento sulla conoscenza, sull’umiltà della ricerca e sulle virtù morali, vero strumento di elevazione spirituale e di potere. Questo è senza dubbio l’insegnamento più importante del romanzo. Esso è, però, ricchissimo anche da un punto di vista filosofico e potrà dare a chi lo legge moltissimi spunti di riflessione e di approfondimento.

Una nota sullo stile non può mancare. L’autore si dimostra un narratore abile. La trama scorre piacevole e veloce, riuscendo a trasmettere tutti i significati senza divenire pensante e pedissequa. Anzi, il testo è infarcito di una certa elegante ironia, tutta settecentesca, che dà colore ai fatti narrati e li rende adatti anche alla lettura da parte di chi non sia interessato al messaggio spirituale, ma solo alla storia.  

Prima di concludere, segnalo la particolarità del canto 70. Esso non fa parte della narrazione, ma la interrompe per descrivere le posizioni filosofiche dell’autore sui segni, sulle lingue e sul loro rapporto con la Verità. Essendo così distaccato dalla trama e costituendo quasi un trattatello a sé, è stato escluso (a torto, secondo chi scrive) da diverse edizioni del romanzo. La Aedel edizioni ha invece deciso di inserirlo, facendo cosa buona e giusta, poiché se anche non apporta nulla alla trama, aggiunge molto al senso iniziatico della narrazione, che poi è il vero scopo. Per questo motivo consiglio questa edizione, per altro ben curata e corredata di una prefazione sull’autore ad opera di Paolo Giraudo.  

Enrico Proserpio


[1] Louis Claude de Saint-Martin, Il coccodrillo, Aedel edizioni, 1999, pagine 77 – 78.

[2] Louis Claude de Saint-Martin, Il coccodrillo, Aedel edizioni, 1999, pagine 398 – 399.

[3] Louis Claude de Saint-Martin, Il coccodrillo, Aedel edizioni, 1999, pagina 399.

La Parola del secondo grado nel Rito Scozzese Rettificato

Davanti al Tempio di Salomone, a lato dell’ingresso d’Occidente, il re Salomone fece erigere due Colonne di bronzo dal forte senso simbolico. Così dice Ruggiero Di Castiglione:

La colonna di destra (Jakin) evoca, infatti, l’idea di «solidità»; mentre quella di sinistra (Boaz), l’idea di «forza». L’unione dei due nomi indica «stabilità».[1]

La storia della costruzione del Tempio e delle Colonne è narrata nella Bibbia, precisamente nel primo libro dei Re[2]:

Fuse due colonne di bronzo, ognuna alta diciotto cubiti e dodici di circonferenza. Fece due capitelli, fusi di bronzo, da collocarsi sulla cima delle colonne; l’uno e l’altro erano alti cinque cubiti.

Fece due reticoli per coprire i capitelli che erano sopra le colonne, un reticolato per un capitello e un reticolato per l’altro capitello. Fece melagrane su due file intorno al reticolato per coprire i capitelli sopra le colonne; allo stesso modo fece per il secondo capitello. I capitelli sopra le colonne erano a forma di giglio. C’erano capitelli sopra le colonne, applicati alla sporgenza che era al di là del reticolato; essi contenevano duecento melagrane in fila intorno a ogni capitello. Eresse le colonne nel vestibolo del tempio. Eresse la colonna di destra, che chiamò Iachin ed eresse la colonna di sinistra, che chiamò Boaz. Così fu terminato il lavoro delle colonne.[3]

Qui ci occuperemo del significato della Colonna Boaz e del suo nome, il quale è anche la Parola del grado di Compagno[4].

Come si diceva, Boaz (o Booz) significa “forza” o “in forza”. Essa rappresenta una delle virtù necessarie alla pratica iniziatica. In questo grado, però, la forza non appartiene ancora all’Iniziato, ma risiede nella Colonna, nel Tempio. Il Compagno, quindi, si deve appoggiare, per il suo lavoro, alla Loggia e all’Ordine e non ha ancora gli strumenti necessari a camminare da solo. A riprova di ciò ricordiamo che nel Rito Scozzese Rettificato ogni grado corrisponde a una delle sette virtù. La Fortezza, a cui la Parola del secondo grado sembra collegarsi, è la virtù del quarto grado (Maestro Scozzese di Sant’Andrea), ultimo dei gradi strettamente massonici di tale Rito. Il Fratello che abbia raggiunto quel grado ha tutti gli strumenti necessari per muoversi autonomamente e indipendentemente sul piano dei Piccoli Misteri, avendo completato la parte muratoria del percorso connesso alle quattro Virtù Cardinali. Da queste basi potrà partire per ascendere verso la realizzazione dei Grandi Misteri.

La Fortezza è messa come ultima delle Virtù Cardinali da realizzare in sé perché essa necessita delle altre per poter agire nel modo corretto. Senza la guida delle altre tre (Giustizia, Temperanza, Prudenza) la Fortezza rischia di divenire forza bruta, violenta, trasformandosi da Virtù in vizio. Il Compagno ha come Virtù la Temperanza: egli, accudito e aiutato dalla forza della Loggia e della Massoneria tutta, dovrà imparare a placare le passioni, a incanalarle in modo costruttivo, a trovare quel “giusto mezzo” tra gli opposti che diviene sintesi tra gli stessi.

C’è però un altro aspetto da considerare, che è tipico del Rito Scozzese Rettificato e di lui solo (in ambito massonico). Ai significati della Parola del secondo grado Martinez de Pasqually aggiunge un significato ulteriore, attribuendola, come nome proprio, a uno dei figli di Caino. Prima di addentrarci nel racconto martinezista segnalo che anche nella Bibbia c’è un personaggio di nome Boaz (o Booz). Si tratta di un antenato del Re Davide (e quindi di Gesù di Nazareth). Lo incontriamo nel Libro di Rut, dove si narra la storia della moabita Rut, vedova di un uomo ebreo che si era trasferito nel regno di Moab, che alla morte del marito decide di seguire la suocera, Noemi, e vivere in Israele. Giunta lì, mentre spigola, Rut incontra Booz, suo futuro marito:

Noemi aveva un parente del marito, uomo potente e ricco della famiglia di Elimèlech, che si chiamava Booz. Rut, la Moabita, disse a Noemi: «Lasciami andare per la campagna a spigolare dietro a qualcuno agli occhi del quale avrò trovato grazia». Le rispose: «Va’, figlia mia». Rut andò e si mise a spigolare nella campagna dietro ai mietitori; per caso si trovò nella parte della campagna appartenente a Booz, che era della famiglia di Elimèlech. Ed ecco Booz arrivò da Betlemme e disse ai mietitori: «Il Signore sia con voi!». Quelli gli risposero: «Il Signore ti benedica!». Booz disse al suo servo, incaricato di sorvegliare i mietitori: «Di chi è questa giovane?». Il servo incaricato di sorvegliare i mietitori rispose: «È una giovane Moabita, quella che è tornata con Noemi dalla campagna di Moab. Ha detto: Vorrei spigolare e raccogliere dietro ai mietitori. È venuta ed è rimasta in piedi da stamattina fino ad ora; solo in questo momento si è un poco seduta nella casa».[5]

Torniamo al Martinez de Pasqually. Per l’autore settecentesco “Boaz” è il nome del decimo figlio di Caino:

Caino era un grand’uomo di caccia, egli aveva ugualmente allevato tutti i suoi figli maschi alla caccia, e soprattutto il suo decimo figlio sul quale aveva posto tutto il suo attaccamento. Egli non diede a questo suo figlio altro talento che quello della caccia, essendo gli altri suoi figli più portati ai lavori d’immaginazione ed alle opere manuali. Caino diede a questo decimo figlio il nome di Boaz, o Booz, che vuol dire figlio d’uccisione.[6]

Il significato dato dal Martinez de Pasqually al nome Boaz non trova riscontro nella tradizione massonica che non sia di Rito Scozzese Rettificato. Inoltre, questo figlio di Caino non compare nelle Scritture, essendo Enoch l’unico figlio citato[7]. Questo, però, non cambia la profondità e il valore dottrinale delle tesi martineziste, che provengono da un filone iniziatico di grande spessore. Cerchiamo quindi di analizzare la cosa alla luce delle dottrine di tale filone.

Booz è il decimo figlio di Caino. Il dieci è numero divino, che indica il compimento della via. Il decimo figlio, quindi, è il compimento del destino e del tipo di Caino, ovvero il compimento della prevaricazione e della distruzione. Non a caso è lui a causare la fine di suo padre.

Sia Booz che Caino decidono di fare una battuta di caccia, l’uno all’insaputa dell’altro, nello stesso luogo:

Essi partirono dunque insieme per andare a caccia, ma Booz, senza saperlo, prese la stessa strada di suo padre Caino e, essendo tutti e due in un macchione che erano abituati a battere, Booz scorse l’ombra di una figura attraverso questo macchione chiamato Onam, che vuol dire dolore. Booz spiccò allora una freccia che andò a penetrare il cuore di suo padre, avendolo preso per una bestia feroce. Giudicate della sorpresa e del fremito di Booz, allorché fu sul posto dove aveva tirato il suo colpo di freccia e vide suo padre ucciso dalla sua propria mano. Il dolore di Booz fu tanto più grande in quanto sapeva la punizione e la minaccia che il Creatore aveva lanciato contro colui che avesse colpito la persona di Caino[8]. Sapeva che colui che avesse avuto questa sventura sarebbe stato colpito sette volte da pena mortale, o sarebbe stato punito sette volte di morte.[9]

Questi fatti hanno un’importanza particolare essendo essi del tipo della profezia:

Ciò che forma realmente il tipo di profezia, è che l’incontro delle due persone, Caino e Booz, non è premeditato e che l’uno e l’altro si sono trovati senza sapere, nel luogo in cui Caino ricevette il colpo mortale.[10]

Il più profondo valore simbolico del racconto martinezista è comprensibile solo alla luce del terzo grado e non lo affronteremo qui.

Mi limiterò a indicare nella figura di Booz il rischio che l’Iniziato corre nel suo lavoro. Se egli non resterà sulla retta via dello spirito, indulgendo nei vizi e lasciandosi dominare dalle passioni, non potrà che finire con l’incarnare il tipo del prevaricatore e lavorare alla sua stessa fine. Ricordiamo il discorso fatto in precedenza sulla Forza (o Fortezza) e il suo utilizzo. Booz è colui che usa la forza senza essere guidato dalle Virtù. In lui agiscono le passioni dell’intelletto demoniaco, le voci degli spiriti perversi che si sono resi colpevoli della prima prevaricazione. Non a caso egli è l’unico figlio ad avere il solo talento della caccia, espresso alla massima potenza, ovvero un talento violento e distruttivo. Egli lo usa in modo cieco, inconsapevole, e questo porta all’omicidio di suo padre. Se, infatti, agiamo senza consapevolezza, data dalla pratica delle Virtù e dal costante lavoro iniziatico, non possiamo prevedere le conseguenze e imboccheremo la strada contro-iniziatica che porta verso il basso, verso i vizi. In tal senso l’uccisione del padre rappresenta il distacco dallo Spirito, la colpa primordiale, o peccato originale, che ha gettato l’Uomo in questo mondo di materia, dove non gli è più dato di vedere Dio. Il compito dell’Iniziato è quello di sfuggire ai cicli distruttivi dell’intelletto demoniaco per ascendere e giungere alla Reintegrazione. Il Compagno in particolare deve lavorare facendo affidamento sulla Forza della Loggia e della Massoneria, ben meditando i simboli del suo grado e il loro senso, e tenendo sempre presente l’esempio di Booz, figlio di Caino, affinché gli sia di monito.

Enrico Proserpio

[1] Ruggiero Di Castiglione, Alle sorgenti della Massoneria, editrice Atanòr, 1988, pagina 155.

[2] Della costruzione del Tempio di Salomone si parla anche nel Primo Libro delle Cronache, capitolo 22, e nel Secondo Libro delle Cronache, capitolo 3.

[3] Primo Libro dei Re, capitolo 5, versetti 15 – 22, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Non in tutti i Riti Boaz è Parola Sacra del secondo grado. In altri Riti (RSAA, Emulation…) essa è Parola Sacra del primo grado. In questa Tavola si segue la simbologia del Rito Scozzese Rettificato.

[5] Libro di Rut, capitolo 2, versetti 1 – 7, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 99.

[7] Se ne parla in Genesi, capitolo 4, versi 17 – 18.

[8] Si veda Genesi, capitolo 4.

[9] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 100.

[10] Jacques Martines de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L., 2003, pagina 101.

Ona Vision: poesia di Carlo Porta

Qualche tempo fa, girando per negozi, mi capitò sotto mano un libro di poesie di Carlo Porta, poeta milanese vissuto a cavallo tra il XVIII e XIX secolo. Nello sfogliare, una poesia in particole attirò la mia attenzione. Era una delle poche poesie di Porta che ancora non conoscevo e, quindi, mi misi subito a leggerla. Con mia sorpresa scoprii che riguardava la Massoneria e quindi decisi di scriverci un articolo. Prima di tutto, però, presentiamo l’autore.

N.B. Per chi volesse solo leggere la poesia, testo e traduzione sono linkati in fondo all’articolo.

Carlo Porta

Carlo Porta (15 giugno 1775 – 5 gennaio 1821) è ritenuto il più grande poeta che abbia scritto in milanese. Le sue opere, ammirate e lodate da molti, tra cui lo scrittore francese Stendhal, sono per lo più componimenti ironici, spesso narranti storie, dal contenuto sociale e politico. La sua educazione, avvenuta

Il poeta Carlo Porta.

nella scuola dei Barnabiti a Monza prima e in seminario poi, lasciò nel suo spirito un profondo anticlericalismo che il poeta non esitò mai a esprimere. I preti sono, infatti, le vittime preferite della sua satira, accompagnati, solitamente, dagli aristocratici.

Illuminista, colto, Massone, anticlericale, libertario, il Porta attacca con la sua penna i vizi delle classi dominanti, denunciandone il bigottismo, l’ipocrisia e il perbenismo.

Esempio eccellente della sua critica anti-aristocratica è “La preghiera” di cui riporto i primi versi:

 

Donna Fabia Fabron De Fabrian

l’eva settada al foeuch, sabet passaa,

col pader Sigismond, ex franzescan,

che intrattant el ghe usava la bontaa

– intrattanta, s’intend, ch’el ris coseva –

de scoltà sto discors che la faseva:

 

Donna Fabia Fabrone di Fabriano

era seduta al fuoco, sabato scorso,

con padre Sigismondo, ex francescano,

che intanto le usava la bontà

– intanto, si intende, che il riso cuoceva-

di ascoltare questo discorso che lei faceva

Ecco comparire qui la figura del religioso interessato più a scroccare da mangiare alla ricca signora che non alla sua “salute spirituale”. Il Porta sottolinea il carattere del prete con quel “ex francescan” che ci fa capire come egli abbia preferito la comodità e il buon cibo delle tavole nobiliari alla povertà dei francescani. E intanto che il riso cuoce, padre Sigismondo ascolta il discorso di Donna Fabia.

La nobildonna racconta di essere andata un giorno in chiesa e di essere caduta scendendo dalla carrozza. Un gruppo di poveri, davanti allo spettacolo della caduta, non aveva esitato a prenderla in giro con risa e sberleffi. La donna, con fare superiore, si alza ed entra in chiesa dove recita al Signore la sua preghiera che inizia così:

Mio caro e buon Gesù, che per decreto

dell’infallibil vostra volontà

m’avete fatta nascere nel ceto

distinto della prima nobiltà,

mentre poteva, a un minim cenno vostro,

nascer plebea, un verme vile, un mostro;

Vediamo dunque tutto il disprezzo che la nobildonna ha per il popolo, disprezzo che il Porta sottolinea in diverse opere. In “La nomina del capelan” (la nomina del cappellano), opera che narra la selezione di un nuovo prete di corte da parte di una ricca marchesa, il poeta torna a descrivere l’opportunismo dei preti e l’arroganza e supponenza dei nobili. Basti qui un piccolo estratto:

 

Che, in fin di fatt, se in cà de donna Paola

no gh’era per i pret on gran rispett,

almanca gh’era on fioretton de taola,

de fa sarà su on oeucc su sto difett,

minga domà a on galupp d’on cappellan,

ma a paricc di teolegh de Milan.

Che, in fin dei conti, se in casa di donna Paola

non c’era per i preti un gran rispetto,

almeno c’era un fior di tavola,

da far chiudere un occhio su questo difetto

non solo a un miserabile cappellano,

ma a parecchi dei teologi di Milano.

Non solo preti e aristocratici, però, popolano le poesie del Porta. Anche il popolo trova spazio nella sua poetica. Diversi sono i personaggi popolari a cui il Porta dà voce, spesso in lunghi monologhi. Dal povero vessato dai potenti (Desgrazi de Giovannin Bongee), alla prostituta che racconta la sua storia (La Ninetta del Verzee): persone misere, indifese davanti al potere, che il Porta stima più dei potenti stessi. Questi personaggi, per quanto divertenti, sono sempre descritti con occhio bonario e comprensivo, diversamente da nobili e religiosi.

Oltre che negli ideali, il Porta è moderno anche nello stile. Le sue opere, spesso in sestine a verso libero, sposano appieno lo stile del romanticismo, nascente corrente letteraria che informerà di sé molta letteratura del XIX secolo. E da buon poeta romantico non può esimersi dal partecipare alla contesa tra romantici e neoclassici. Nella poesia “El romanticismo” egli si rivolge a Madame Bibin per spiegarle l’essenza del romanticismo stesso e smentire tutte le brutte cose che certa gente andava dicendo di chi aderisce a questa corrente (si diceva, da parte neoclassica, che i romantici fossero libertini edonisti, dediti solo ai piaceri). Al Porta risponde Carlo Gherardini, poeta neoclassico, con un componimento dal titolo “La risposta di Madam Bibin”. E proprio il Gherardini è il nemico giurato del Porta. I due continueranno a stuzzicarsi a distanza, in un gioco di battibecchi poetici, dai toni, a volte, piuttosto forti. In un sonetto intitolato “Alla musa del sur G.” (Alla musa del signor G.) il Porta definisce l’avversario “Ciolla! Cojon! Sonaj! Morbo! Strument!”, i primi tre termini essendo traducibili con “coglione” e gli altri due significando “morbo, malattia” e “strumento, oggetto senza intelligenza”.

Concludiamo dicendo che il Porta ebbe, a suo tempo, contatti con i più grandi letterati tra cui Ugo Foscolo, Tommaso Grossi, Giovanni Berchet, Alessandro Manzoni… inserendosi a pieno diritto nel clima di vivacità artistica e intellettuale dell’epoca. L’uso del dialetto ha purtroppo limitato la diffusione delle sue opere, difficilmente comprensibili da chi non conosca, e bene, il dialetto milanese, ma ha al contempo donato loro una vivacità e un colore che difficilmente l’italiano potrebbe dare.

Ona vision

Veniamo ora alla nostra poesia. “Ona vision” fu scritta nel 1812 e si inserisce tra le opere satiriche che attaccano clero e nobiltà. La scena si svolge a casa di due sorelle aristocratiche che si intuisce essere zitelle. Con loro ci sono Don Pasquale e il teologo e canonista Don Diego. Don Pasquale sonnecchia davanti al fuoco, brontolando e russando, dopo aver lautamente mangiato. Nessuno però lo disturba, poiché si dice che durante il sonno egli abbia visioni mandate da Dio. Le sorelle pregano sottovoce, chiedendo alla bontà divina di sterminare tutti coloro che si permettono di disturbare i preti mentre dormono. Ma il sonno è agitato e le donne si preoccupano che qualche terribile visione possa far passare al sacerdote la fame per la merenda.

Don Diego, intanto, partecipa alle preghiere, interrompendosi di tanto in tanto per recitare alcune parti del breviario rimaste indietro.

Finalmente Padre Pasquale si sveglia e racconta la visione avuta. Era in Paradiso, e c’erano tanti Santi e Beati da poter far da tappeto al Paradiso stesso.

Le donne chiedono subito se, per caso, abbia visto qualche loro cugina o parente, ma il sacerdote dice di no. In compenso, dice di aver visto molte persone famose, tra cui Giuseppe Parini, Pietro Metastasio e altri celebri personaggi di cui vari in odor di Massoneria.

Le marchesine sono scandalizzate! Com’è possibile che dei Massoni siano in Paradiso? Non sa forse Don Pasquale che solo a conversare con loro si incappa nella scomunica papale?

Per il veggente le cose sembrano mettersi male: potrebbe rischiare addirittura di essere bandito dalla casa e dalla tavola delle due dame!

Per fortuna in suo soccorso viene Don Diego, che da teologo e canonista quale è, salva Don Pasquale dal suo funesto destino con un mirabile gioco di filosofia, che lascio a voi scoprire.

Potete scaricare la poesia con la mia traduzione al link sottostante:

Ona vision, poesia di Carlo Porta

Enrico Proserpio

 

La caduta dell’uomo e l’origine del sacro

Secondo molte religioni e scuole iniziatiche, all’inizio dei tempi l’uomo viveva in un mondo di perfetta felicità e di perfetto benessere, dove nulla mancava e non esistevano malattie e sofferenze. La Bibbia ci parla dell’Eden, il giardino paradisiaco creato da Dio e prima dimora dell’uomo. Lo stato paradisiaco dell’inizio, spesso definito “età dell’oro”, è destinato però a finire, non ha il carattere dell’eternità. Essendo un mondo di forme, per quanto elevate, non può essere che instabile, perituro, impermanente. Nell’apparente perfezione dell’Eden è presente il seme della caduta e la sua germinazione non è che questione di tempo.

Il mito dell’Eden definisce chiaramente la causa della caduta. Dice il Genesi:

Il Signore Dio prese l’uomo e lo pose nel giardino di Eden, perché lo coltivasse e lo custodisse.

Il Signore Dio diede questo comando all’uomo: «Tu potrai mangiare di tutti gli alberi del giardino, ma dell’albero della conoscenza del bene e del male non devi mangiare, perché, quando tu ne mangiassi, certamente moriresti.»[1]

E così accade. Quando Adamo ed Eva mangiano il frutto proibito e acquisiscono la conoscenza del bene e del male non possono più rimanere nell’Eden e vengono cacciati dall’angelo. La loro condanna è forte e terribile:

Allora il Signore Dio disse al serpente: «Poiché tu hai fatto questo, sii tu maledetto più di tutto il bestiame e più di tutte le bestie selvatiche; sul tuo ventre camminerai e polvere mangerai per tutti i giorni della tua vita. Io porrò inimicizia tra te e la donna, tra la tua stirpe e la sua stirpe: questa ti schiaccerà la testa e tu le insidierai il calcagno».

Alla donna disse: «Moltiplicherò i tuoi dolori e le tue gravidanze, con dolore partorirai figli. Verso tuo marito sarà il tuo istinto, ma egli ti dominerà».

All’uomo disse: «Poiché hai ascoltato la voce di tua moglie e hai mangiato dell’albero, di cui ti avevo comandato: Non ne devi mangiare, maledetto sia il suolo per causa tua! Con dolore ne trarrai il cibo per tutti i giorni della tua vita. Spine e cardi produrrà per te e mangerai l’erba campestre. Con il sudore del tuo volto mangerai il pane; finché tornerai alla terra, perché da essa sei stato tratto: polvere tu sei e in polvere tornerai!».[2]

Non credo si debba vedere in questo mito della cacciata dal paradiso una volontà violenta di Dio verso la sua creatura. La cacciata, la caduta, è piuttosto l’inevitabile conseguenza della scelta dell’uomo. Adamo ed Eva si allontanano dal divino per la loro voglia di conoscenza e di libertà. Mangiano il frutto per comprendere, credendo a chi diceva loro che sarebbero divenuti pari a Dio. Ma non accade questo. L’uomo diventa conoscitore del mondo, della materia e cade nell’illusione che questo mondo sia quello reale. La forma prende nella coscienza umana il posto dell’essenza, la conoscenza razionale tacita l’intuizione spirituale. La cacciata non è un vero cambiamento di luogo. L’uomo non si sposta in un diverso paese, in un diverso mondo. Cambia piuttosto la visione del mondo dove vive. L’avidità di conoscenza e di potere non permettono più all’uomo di vedere il bello e la ricchezza del mondo, ma pone l’accento sempre e solo su ciò che non si ha, generando una corsa alla materialità e alla forma. Anche la filosofia stessa spesso rincorre la complessità fine a se stessa, l’eleganza effimera dell’accademico, di voli logici privi di reale fondatezza. Senza l’intuizione, senza la guida dello Spirito, la filosofia diventa spessissimo “feticismo logico e linguistico”.

Anche un altro passo riguardante la cacciata è spesso frainteso:

Il Signore Dio disse allora: «Ecco l’uomo è diventato come uno di noi, per la conoscenza del bene e del male. Ora, egli non stenda più la mano e non prenda anche dell’albero della vita, ne mangi e viva per sempre!». Il Signore Dio lo scacciò dal giardino di Eden, perché lavorasse il suolo da dove era stato tratto.[3]

Si potrebbe, a una lettura superficiale, pensare che Dio cacci l’uomo per punizione e per non avere un essere suo pari che possa contendergli il primato di Signore dell’Universo. Non è così. La conoscenza ha oscurato la coscienza umana sprofondandola nel mondo delle forme. Se l’uomo mangiasse anche del frutto della vita e divenisse immortale sarebbe condannato a vivere eternamente nella prigione di materia, limite e sofferenza che si è creato da solo. Con la cacciata dal paradiso, Dio tutela l’uomo come un padre tutela il figlio sgridandolo quando compie un gesto non corretto.

Un concetto simile alla cacciata dall’Eden per aver acquisito la conoscenza lo si ritrova anche in un testo precedente alla Bibbia: la Saga di Gilgamesh. In essa si narra che Enkidu, per due terzi divino e per uno umano, come il re Gilgamesh, e creato per tenergli testa, sia un essere bestiale, privo della ragione. Gilgamesh, compreso che Enkidu può essere per lui pericoloso, decide di giocare d’astuzia e così gli manda la prostituta sacra Shamkat che con il sesso trasmette la civiltà a Enkidu. Dopo il rapporto, egli non viene più riconosciuto dalle belve, divenendo un escluso dal paradiso, dallo stato primordiale. Anche qui la conoscenza provoca una caduta necessaria alla crescita successiva.

La caduta non riguarda solo l’uomo. Riguarda anche Dio stesso. Con la creazione egli rinuncia alla sua onnipotenza. Nel momento stesso in cui crea un “altro da sé”, perde il controllo, almeno parzialmente. L’Antico Testamento vede spesso profeti mandati ad avvertire il popolo eletto delle conseguenze della loro disobbedienza. L’uomo ha il libero arbitrio e questo è necessario a Dio per avere una controparte, una creatura indipendente da amare per poter egli stesso, grazie a tale Amore, perfezionarsi.

La caduta implica anche la perdita dell’armonia iniziale e del contatto con lo spirito delle cose e degli altri viventi, la perdita del contatto intimo con quella che, poeticamente, è stata definita “anima del mondo”. E poiché, attraverso di essa, cuore pulsante del creato, l’uomo poteva congiungersi a Dio, con la perdita dell’armonia, l’uomo non ha più la comunione col Creatore. Ma non tutto è perduto.

L’uomo, decaduto in un mondo sporcato dalla materialità, in una realtà di ordine inferiore a quella originaria, cerca una via, un modo, per riavvicinarsi a Dio. E per farlo crea la sacralità. Poiché il suo corpo materiale, la sua forma imperfetta, pone limiti netti, pesanti e difficili da superare, egli deve creare degli strumenti, dei mezzi per superarli. Tali strumenti sono di diverso tipo, ma servono a raggiungere lo stesso scopo.

Possiamo immaginare il Tutto come una ruota. Dal centro della ruota, dal perno intorno al quale tutto gira (il Divino) promana l’Universo. Il cerchio periferico della ruota rappresenta il mondo materiale dove l’uomo vive. I raggi sono le Vie che collegano il Divino all’umano. Su tali vie lo spirito si muove dal centro alla periferia e dalla periferia al centro. Ogni raggio della ruota rappresenta un percorso, una forma di sacralità differente, iniziatica o religiosa che sia.

La sacralità segna una via nel mondo, ma al contempo è esterna al mondo. Essa è fatta di gesti, simboli e pratiche che separano lo spazio sacro (non solo lo spazio fisico, ma anche lo spazio umano, mentale) da quello profano per permettere quella trascendenza che altrimenti si perderebbe nel tumulto delle forme.

Non tutti i percorsi creati dall’uomo sono paritetici e danno le stesse possibilità. Per poter servire allo scopo della trascendenza il percorso deve avere alcuni elementi. Prima di tutto il percorso deve essere basato su una dottrina, su una filosofia che affronti lo spirituale in modo il più possibile completo. Per quanto infatti la sacralità crei uno spazio privilegiato, non si può pensare che ci sia una frattura netta tra ciò che è sacro e ciò che sta fuori. Considerare come separati i due aspetti e pensare che il mondo profano, e ciò che si fa in esso, non abbia nessuna influenza sul sacro e sul percorso spirituale non può che portare al fallimento, al distacco dalla realtà. Non a caso i percorsi spirituali seri (e tradizionali) hanno un sistema etico e una filosofia pratica da seguire nella vita di tutti i giorni. Questo aspetto è importante sia per le sue implicazioni sulla vita della persona e, in definitiva, sull’Umanità, sia perché questo è il primo passo, l’inizio di quasi tutti i percorsi.

L’aspetto etico è una base importante, ma non è che la porta d’ingresso (o una delle porte) della sacralità. Lo scopo vero, infatti, è la trascendenza e la riunificazione col Divino. Questo lo si ottiene attraverso delle pratiche che portino le diverse parti dell’essere umano (mente, anima, spirito…) a fondersi, a unificarsi nell’armonia. Per farlo l’uomo ha creato simboli, rituali e regole. Questi esprimono la dottrina del percorso di cui fanno parte, ma hanno anche un valore superiore, una potenza spirituale che va oltre il significato razionale e filosofico. I simboli hanno una carica che si coglie attraverso l’intuizione e che non può essere compresa pienamente. Essi rappresentano e riassumono la totalità del mondo e permettono all’uomo di tornare a intuirne la grandezza, la vera essenza. Proseguendo nel percorso l’uomo abbandona gradualmente le cose in eccesso, i concetti inutili, i “feticismi filosofici e linguistici” e si purifica fino a ritrovarsi. L’Adepto (o il Santo) sono uomini realizzati, che non hanno più bisogno del percorso perché hanno superato le forme, tanto profane quanto sacre. Nell’Adepto, profano e sacro non hanno più senso, non hanno distinzione. Tutto è ritornato all’armonia e all’unità originarie.

La sacralità ha il potere di sfruttare la divisione per portare all’unità. Con la caduta l’uomo non è più unito al Tutto, ma è separato, diviso. Egli percepisce, nella sua illusione, l’altro (perfino l’altro uomo) come qualcosa di diverso, di distaccato. Il sacro però torna a creare unità, ponendo coloro che fanno lo stesso percorso in una fratellanza di intenti che è anche reale unione nello spirito. Questa fratellanza, che è esclusiva in quanto riguarda solo coloro che hanno intrapreso un certo tipo di via, è la pallida e sbiadita immagine dell’unità originaria. In origine, lo stato spirituale della persona era assoluto, integro, totale. Con la caduta diviene relativo, legato ai rapporti con l’altro che è tale solo per l’illusione della separazione. La sacralità è per forza questione di rapporti con il mondo e gli esseri umani. Perfino le pratiche ascetiche degli eremiti che vivono in totale solitudine e isolamento sono in realtà “sociali”. L’eremita è tale proprio in relazione alla società, all’insieme degli uomini e delle donne che vivono nel mondo. La scelta di isolamento e solitudine è sempre fatta in considerazione della società. L’uomo non esiste di per sé, ma è parte di qualcosa di più grande: l’Umanità. Essa non va intesa solo in senso sociologico o antropologico, ma in senso mistico, come essere unico anche se incosciente della sua stessa unità. Scrive Paul Evdokimov:

Quando i Padri [della Chiesa] si riferiscono alla caduta usano una immagine molto familiare, quella dell’integrità «frantumata in mille pezzi a causa del peccato». Nella sua infinita pazienza Iddio trascorre il suo tempo «incollando di nuovo» le particelle disperse per ricostituire l’unità iniziale.[4]

Come si diceva, non tutte le forme di sacralità sono identiche e di pari valore. Non condivido ciò che sosteneva René Guénon secondo il quale le vie moderne e create di recente non avrebbero valore e sarebbero da ritenersi solo pseudo-iniziatiche. Ogni caso va valutato singolarmente. Quel che però condivido con l’autore francese è il rispetto della Tradizione e la sua valorizzazione. Le vie tradizionali danno maggiore garanzia per vari motivi. Prima di tutto la loro durata ne prova, in certo qual modo, la serietà. Molti sono i movimenti o le sette che nascono e finiscono in poco tempo senza lasciare traccia. Inoltre, col tempo, le vie tradizionali si sono via via arricchite dell’apporto sia filosofico che spirituale e “pneumatico” di coloro che le hanno seguite. Pensiamo solo alla grande quantità di scritti mistici o teologici del Cristianesimo o di altre religioni come l’Induismo o il Buddhismo. Questa ricchezza garantisce anche una completezza del percorso, una possibilità maggiore di trovare gli strumenti adatti alla propria realizzazione spirituale. Le vie nuove, non legate a una tradizione, sono tutte da costruire e quindi incerte.

Profano e sacro, dunque, sono solo concetti umani che l’uomo deve superare nella sua ascesa. Il dualismo è la prima grande illusione dovuta alla caduta, una illusione che ci ingabbia in concetti e parametri limitanti. Il mondo, divenuto profano, non ha altro da offrire che limiti, illusione e falsità. Ma l’uomo è stato capace di creare, con l’aiuto dello Spirito, delle strade per fuggire da tutto ciò, sfruttando proprio quelle forme, quelle illusioni e dando loro un senso e un potere nuovo. Riducendo la complessità e la grandezza del creato in uno spazio simbolico e limitato, il sacro riesce, paradossalmente, a raggiungere l’infinito sfuggendo alla confusione e alla vertigine che coglie colui che, impreparato, si sporga sull’abisso cosmico dell’Universo. I limiti del profano sono imposti dal di fuori e sono dei freni alla nostra ascesa. I limiti del sacro sono auto-imposti e servono da indicazione, da strada e da guida alla trascendenza. Il punto di arrivo è al di fuori sia del profano che del sacro, poiché tali categorie appartengono al mondo delle forme e la meta è, al contrario, essenza.

Un ultimo punto è fondamentale. Le diverse sacralità portano tutte verso lo stesso centro, ma sono strade differenti. Spesso si sente dire che le varie religioni sono uguali l’una all’altra, che dicono le stesse cose anche se con parole diverse. Non è così. Ogni religione ha il proprio modo di vivere e concepire il Divino e la sacralità e, per quanto possa avere cose in comune con le altre, resta pur sempre unica. L’atteggiamento, sempre più diffuso purtroppo, di seguire più vie contemporaneamente, anche se tra loro molto distanti, crea spesso confusione e non porta a nulla di buono. Si rischia di divenire banderuole che si muovono al vento delle ultime novità o della moda. Non escludo certo la possibilità di seguire diversi percorsi. È però opportuno fare delle scelte, seguire vie che siano vicine l’una all’altra. Personalmente pratico la Massoneria e il Martinismo a livello iniziatico e il Cristianesimo Ortodosso a livello religioso. Questi tre filoni derivano comunque dalla spiritualità dell’Occidente giudaico-cristiano e come tali sono affini e compatibili. Altro discorso sarebbe seguire, per esempio, l’Ortodossia e il Voodoo contemporaneamente. Si tratta di due vie incompatibili tra loro. Fare un’abbuffata di Iniziazioni e di vie iniziatiche e religiose è un atteggiamento che manca di rispetto al sacro e tratta la spiritualità come se fosse un bene di consumo e l’Iniziazione come una figurina da aggiungere all’album. E questo è molto, molto profano.

Enrico Proserpio

[1] Genesi, capitolo 2, versetti 15 – 16, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[2] Genesi, capitolo 2, versetti 14 – 19, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[3] Genesi, capitolo 3, versetti 22 – 23, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Paul Evdokimov, L’ortodossia, Edizioni Dehoniane Bologna, 2010, pagina 135.

Considerazioni sulla Giustizia

Una delle peculiarità del Rito Scozzese Rettificato è il collegamento tra i gradi e le Virtù Cardinali e Teologali. I primi quattro gradi, quelli prettamente massonici, si ricollegano alle Virtù Cardinali:

  • Apprendista: Giustizia
  • Compagno: Temperanza
  • Maestro: Prudenza
  • Maestro Scozzese di Sant’Andrea: Fortezza

Ci occuperemo qui della Giustizia, inerente al primo grado. Il riferimento a tale Virtù appare nel Rituale di Ricevimento[1], sia nell’arredamento del Tempio che nel testo. Nel Tempio saranno, infatti, posti due cartelli: uno all’Oriente, con la scritta “Giustizia” e l’altro all’Occidente, con la scritta “Clemenza”. Il Maestro Venerabile, inoltre, rivolge al nuovo Fratello, appena ricevuto in Loggia, delle spiegazioni inerenti il senso delle scritte sopra citate. Indicando il cartello all’Oriente egli spiega:

Le leggi della Giustizia sono eterne e immutabili. Colui che, essendo affranto dai sacrifici che essa esige, rifiuta di sottomettervisi, è un codardo che si disonora e si perde. Non esitate dunque mai Fratello mio, e siate giusto verso tutti gli uomini, senza consultare le vostre passioni, né i vostri interessi personali. Queste armi che vedete puntate contro di voi, non sono che una debole immagine dei rimorsi dei quali sarete preda se voi aveste la disgrazia di mancare di Giustizia e al vostro giuramento.

Facendo poi girare il Fratello, affinché veda il cartello all’Occidente, prosegue:

Fratello mio, se voi siete di animo giusto e sincero, non piangete affatto; la Clemenza tempera i rigori della Giustizia in favore di coloro che si sottomettono generosamente alle sue leggi. Usate dunque la moderazione con gli altri uomini quando essi si saranno resi colpevoli verso di voi.

Alla luce di questi brani possiamo fare alcune considerazioni. Tanto per cominciare risulta evidente che non si sta parlando della semplice giustizia profana, quella delle leggi dello stato e dei tribunali, che della vera Giustizia è il pallido riflesso (quando non un vero e proprio stravolgimento). Lo si può comprendere dall’accenno all’eternità e immutabilità delle leggi, il che le pone su un piano superiore a quello materiale che eterno e immutabile non è. Le leggi a cui si fa riferimento sono dunque quelle del mondo divino, quelle emanate dalla mente di Dio all’origine dei tempi. Da quei principi primi derivano le leggi del mondo materiale e le leggi dello Spirito.

Fu dalla prevaricazione, che altro non è che la disobbedienza alle leggi divine, che derivò il male, il quale non esisteva e che non discende dal Creatore. La prevaricazione, che ha fatto decadere dal loro primo stato di gloria gli spiriti perversi prima e Adamo poi, ha dato origine a una lotta interna all’umanità, alla “discendenza di Adamo” tra l’intelletto buono (proveniente da Dio) e l’intelletto cattivo (proveniente dagli spiriti perversi). In mezzo si trova l’uomo, che deve scegliere tra il seguire i dettami di Dio e lavorare alla propria reintegrazione e il cedere alla tentazione. Il male deriva proprio dalle suggestioni dell’intelletto cattivo e dalla scelta dell’uomo di metterle in atto. Così scrive il Martinez de Pasqually:

Si può vedere, in tutto ciò che ho detto, che l’origine del male non è venuta da alcun’altra causa se non dal cattivo pensiero seguito dalla volontà cattiva dello spirito contro le leggi divine, e non che lo spirito stesso emanato dal Creatore sia direttamente il male, perché la possibilità del male non è mai esistita nel Creatore. Esso nasce unicamente dalla sola disposizione e volontà della sua creatura. Coloro che parlano differentemente non parlano con cognizione di causa delle cose possibili ed impossibili alla Divinità. Allorché il Creatore castiga la sua creatura, gli si dà il nome di giusto, e non quello d’autore del flagello ch’egli lancia per preservare la sua creatura dal patimento infinito.[2]

Possiamo dire che la Giustizia, in senso esoterico del termine, è dunque la capacità di distinguere l’intelletto buono da quello cattivo. Essa è la prima virtù, necessaria a ogni percorso spirituale e a ogni realizzazione. Senza la capacità di distinguere, l’uomo è, infatti, preda di ogni suggestione, di ogni superstizione e di ogni perversione. Per questo la Giustizia è la virtù del primo grado, essendo essa la base necessaria a praticare tutte le altre.

Ma come può l’uomo distinguere ed essere certo di praticare la Giustizia? Nel suo stato di privazione il Minore non ha la visione chiara delle cose e può cadere nell’errore. Per tal motivo esistono le leggi morali ed etiche, leggi che il massone deve interiorizzare, cercando di comprenderne il senso profondo per costruirsi quegli strumenti necessari a comprendere e a distinguere. Ogni uomo dovrà lavorare su se stesso e fare il proprio percorso di comprensione, essendo la via di ognuno unica. Non ci dilungheremo qui sui principi morali, che da soli richiederebbero una lunga trattazione. Un accenno però ad alcuni punti è necessario.

Il primo punto è il dovere, per il massone, di comportarsi secondo giustizia, per quanto possibile. L’errore è comprensibile e, a volte, anche perdonabile. La malafede non lo è. In tal senso il Libero Murature non deve cercare scuse per le proprie debolezze o, peggio, non deve essere ipocrita. Il Lavoro di Loggia non ha senso se nel mondo profano i principi vengono abbandonati in nome dell’interesse immediato e personale. Il mondo profano non è una cosa distaccata da quello spirituale, ma ne costituisce la base e il terreno di prova. Senza coerenza nei principi non c’è elevazione. Se l’adesione ai principi della Giustizia è solo esteriore, di facciata, non si realizzerà nulla e si rimanderà la propria reintegrazione, poiché allo Spirito non sfugge nulla. Anche la Scrittura ci ricorda di diffidare degli ipocriti:

Nel frattempo, radunatesi migliaia di persone che si calpestavano a vicenda, Gesù cominciò a dire anzitutto ai discepoli: «Guardatevi dal lievito dei farisei, che è l’ipocrisia. Non c’è nulla di nascosto che non sarà svelato, né di segreto che non sarà conosciuto. Pertanto ciò che avrete detto nelle tenebre, sarà udito in piena luce; e ciò che avrete detto all’orecchio nelle stanze più interne, sarà annunziato sui tetti. [ … ]»[3]

In tal senso è anche importante il non usare due pesi e due misure nei giudizi, poiché la Giustizia è una e non può essere differente a seconda delle convenienze. Anche qui la Scrittura è chiara:

In quel tempo diedi quest’ordine ai vostri giudici: Ascoltate le cause dei vostri fratelli e giudicate con giustizia le questioni che uno può avere con il fratello o con lo straniero che sta presso di lui. Nei vostri giudizi non avrete riguardi personali, darete ascolto al piccolo come al grande; non temerete alcun uomo, poiché il giudizio appartiene a Dio; le cause troppo difficili per voi le presenterete a me e io le ascolterò.[4]

E ancora:

Il doppio peso è in abominio al Signore

e le bilance false non sono un bene.[5]

In questo ultimo passo del Deuteronomio si incontrano anche altri aspetti molto interessanti: il fatto che il giudizio appartenga a Dio e l’esistenza di cause troppo difficili per l’uomo. Le due cose in realtà sono connesse. L’uomo è un essere limitato e come tale non può giudicare in modo certo. Solo Dio ha la possibilità di giudicare senza tema d’errore e, quindi, secondo vera Giustizia. Inoltre la natura umana, imperfetta e debole, induce l’uomo a errare. Non esiste un essere umano che non abbia mai compiuto atti ingiusti e non abbia mai compiuto qualcosa di male. Per questo il Rituale fa accenno anche alla Clemenza, che, da una parte, mitiga la durezza della Giustizia e, dall’altra, ci indica ciò che dobbiamo fare. Per quanto il nostro prossimo ci appaia colpevole, dobbiamo cercare di applicare la comprensione e la Clemenza, ricordandoci sempre della nostra fondamentale incapacità di conoscere e comprendere tutte le ragioni di ciò che vediamo. Per questo, anche nel momento in cui ci si trovi costretti ad agire contro qualcuno e ad applicare le leggi e le norme dell’Ordine o dello stato, lo si dovrà fare senza astio e nella giusta misura. Si dovrà stare attenti ad agire sulla base del buon intelletto che viene dall’alto e non sull’onda di bassi sentimenti di vendetta che sono suggeriti dal cattivo intelletto. Anche la vendetta, infatti, appartiene a Dio:

Non dire: «Voglio ricambiare il male»,

confida nel Signore ed egli ti libererà.[6]

Anche San Paolo scrive:

Non rendete a nessuno male per male. Cercate di compiere il bene davanti a tutti gli uomini. Se possibile, per quanto questo dipende da voi, vivete in pace con tutti. Non fatevi giustizia da voi stessi, carissimi, ma lasciate fare all’ira divina. Sta scritto infatti: A me la vendetta, sono io che ricambierò, dice il Signore.[7]

E continua suggerendo come comportarsi con chi compie atti ingiusti nei nostri confronti:

Al contrario, se il tuo nemico ha fame, dagli da mangiare; se ha sete, dagli da bere: facendo questo, infatti, ammasserai carboni ardenti sopra il suo capo. Non lasciarti vincere dal male, ma vinci con il bene il male.[8]

Nostro compito è comportarci in modo giusto, è cercare di comprendere e conoscere le vie della Giustizia per seguirle. Applicare tali leggi su chi le viola e vendicare i torti sta invece a Dio, unico ad avere la possibilità di farlo agendo in modo retto e in piena coscienza e conoscenza.

Ovviamente questo non significa che l’uomo non debba mai contrastare chi agisce ingiustamente. Solo che il contrasto all’ingiustizia deve essere portato avanti nel modo opportuno, seguendo i dettami della Ragione, nel senso più elevato e spirituale del termine, e non seguendo la sete di vendetta, come già si sottolineava in precedenza. La legge umana, se creata con questo spirito, diviene quindi uno strumento utile per gestire le ingiustizie senza generarne delle altre. Anche qui, però, chi la applica deve sempre ricordare la Clemenza e la giusta misura, altrimenti la legge stessa rischia di trasformarsi nel male che cerca di combattere. Questo vale per le leggi degli stati, ma anche per la legge morale. Se ci si dimentica del cuore della Legge, ovvero della sua natura di strumento per evitare la prevaricazione e aiutare gli uomini a vivere rettamente, e la si erge a riferimento assoluto e indiscutibile, si finisce con l’adorare la Legge come nuovo Dio e con il compiere il male stesso in suo nome. Anche Cristo se la prende con chi svuota la Legge del suo contenuto vero e ne applica la lettera in modo pedissequo, rigido e intransigente per i propri interessi umani:

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che chiudete il regno dei cieli davanti agli uomini; perché così voi non vi entrate, e non lasciate entrare nemmeno quelli che vogliono entrarci.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che percorrete il mare e la terra per fare un solo proselito e, ottenutolo, lo rendete figlio della Geenna il doppio di voi.

Guai a voi, guide cieche, che dite: Se si giura per il tempio non vale, ma se si giura per l’oro del tempio si è obbligati. Stolti e ciechi: che cosa è più grande, l’oro o il tempio che rende sacro l’oro? E dite ancora: Se si giura per l’altare non vale, ma se si giura per l’offerta che vi sta sopra, si resta obbligati. Ciechi! Che cosa è più grande, l’offerta o l’altare che rende sacra l’offerta? Ebbene, chi giura per l’altare, giura per l’altare e per quanto vi sta sopra; e chi giura per il tempio, giura per il tempio e per Colui che l’abita. E chi giura per il cielo, giura per il trono di Dio e per Colui che vi è assiso.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pagate la decima della menta, dell’aneto e del cumino, e trasgredite le prescrizioni più gravi della legge: la giustizia, la misericordia e la fedeltà. Queste cose bisognava praticare, senza omettere quelle. Guide cieche, che filtrate il moscerino e ingoiate il cammello!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che pulite l’esterno del bicchiere e del piatto mentre all’interno sono pieni di rapina e d’intemperanza. Fariseo cieco, pulisci prima l’interno del bicchiere, perché anche l’esterno diventi netto!

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che rassomigliate a sepolcri imbiancati: essi all’esterno son belli a vedersi, ma dentro sono pieni di ossa di morti e di ogni putridume. Così anche voi apparite giusti all’esterno davanti agli uomini, ma dentro siete pieni di ipocrisia e d’iniquità.

Guai a voi, scribi e farisei ipocriti, che innalzate i sepolcri ai profeti e adornate le tombe dei giusti, e dite: Se fossimo vissuti al tempo dei nostri padri, non ci saremmo associati a loro per versare il sangue dei profeti; e così testimoniate, contro voi stessi, di essere figli degli uccisori dei profeti. Ebbene, colmate la misura dei vostri padri![9]

Per concludere vorrei accennare al simbolismo che si riscontra nella lama numero VIII dei Tarocchi che della Giustizia prende il nome. Nel simbolismo di questa lama ritroviamo quanto detto in precedenza: la spada indica il potere della Giustizia, che deve essere però temperato dalla misura e dall’equità, rappresentate dalla bilancia. Inoltre la spada è verticale, puntata verso il cielo e non verso un ipotetico colpevole. Questo ci suggerisce che, come dice la Scrittura, il suo uso sia riservato a Dio. Oswald Wirth, nella sua opera sui Tarocchi, ci spiega l’importanza della Giustizia, che egli identifica con la Legge divina:

Senza di lei nulla può vivere, poiché gli esseri non esistono se non in virtù della legge alla quale sono sottomessi.[10]

E ci indica anche la connessione tra il simbolismo dei Tarocchi e quello massonico:

Per analogia con le colonne Jakin e Bohas del Tempio di Salomone, i pilastri del trono della Giustizia segnano i limiti della vita fisica: tra loro si estende il campo limitato dell’attività animatrice.[11]

Per il Wirth, inoltre, la Giustizia è anche equilibrio, armonia universale che, se rotta in qualche modo, si ristabilisce inesorabilmente:

Nella mano destra, la dea stringe, inoltre, una spada formidabile, che è la spada della fatalità, poiché nessuna violazione della legge rimane impunita. Non vi è vendetta: ma l’implacabile ristabilimento di ogni equilibrio infranto provoca prima o poi la reazione ineluttabile della Giustizia immanente, alla quale ci collega l’arcano VIII.

Ma lo strumento riparatore degli errori commessi è la Bilancia, le cui oscillazioni riportano l’equilibrio. Ogni azione, ogni sentimento, ogni desiderio influiscono sulla sua asta: ne derivano accumulazioni equivalenti che avranno ripercussioni fatali, in bene o in male. Le energie messe in gioco si capitalizzano; quelle che procedono da una bontà generosa arricchiscono l’anima, poiché colui che ama si rende degno di essere amato. Le simpatie sono più preziose di tutte le ricchezze materiali: nessuno è più povero dell’egoista che rifiuta di darsi psichicamente. Dobbiamo saper donare, per essere ricchi.[12]

Infine, facciamo notare che il numero VIII, che corrisponde alla lama della Giustizia, è, per Martinez de Pasqually, il numero dello “Spirito doppiamente forte appartenente al Cristo”. Che non sia una coincidenza appare evidente.

Enrico Proserpio

[1] Nel Rito Scozzese Rettificato non si parla di “Iniziazione” ma di “Ricevimento”. Essendo tale Rito di matrice cristiana, si ritiene che il recipiendario sia già stato introdotto sulla Via col Battesimo. Egli quindi è già “iniziato” e col Ricevimento in Loggia prosegue il suo percorso su un livello nuovo e più approfondito.

[2] Martinez de Pasqually, Trattato sulla reintegrazione degli esseri, edizioni Libreria Chiari FirenzeLibri S.R.L, 2003, pagina 38.

[3] Vangelo secondo Luca, capitolo 12, versetti 1 – 3, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[4] Deuteronomio, capitolo 1, versetti 16 – 17, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[5] Proverbi, capitolo 20, versetto 23, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[6] Proverbi, capitolo 20, versetto 22, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[7] Lettera ai Romani, capitolo 12, versetti 17 – 19, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[8] Lettera ai Romani, capitolo 12, versetti 20 – 21, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[9] Vangelo secondo Matteo, capitolo 23, versetti 13 – 32, Bibbia di Gerusalemme, Edizioni Dehoniane Bologna, 2002.

[10] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 2002, pagina 166.

[11] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 2002, pagina 166.

[12] Oswald Wirth, I Tarocchi, Edizioni Mediterranee, 2002, pagine 168 – 169. Corsivi originali.

Gli illuminati nella società umana

Pubblichiamo qui la recensione di un libro che molto ha a che fare col Martinismo e solo indirettamente con la Massoneria. Crediamo però che sia utile ai Fratelli, sia per i suoi contenuti di saggezza universale, sia per la parentela stretta tra la dottrina del Saint-Martin (autore del libro) e quella del Willermoz, che fu fondatore del Rito Scozzese Rettificato.

Tra i grandi pensatori cristiani del XVIII secolo si può annoverare senza dubbio Louis Claude de Saint-Martin. Tra le sue opere più famose possiamo citare “L’uomo di desiderio”, o “Ecce homo”. Pochi però conosceranno, probabilmente, “Gli illuminati nella società umana”, opera “minore” del Filosofo Incognito (così era conosciuto l’autore) riguardante la società e le sue istituzioni.

Il periodo in cui visse l’autore fu uno dei più turbolenti sul fronte politico per la Francia e per l’Europa. Il Saint-Martin fu testimone, infatti, della rivoluzione francese e attento osservatore dei fatti e delle idee a essa legati.

Nel suo breve trattato egli affronta un tema fondamentale: il principio base che regge ogni umana associazione. Partendo in gran parte dalla critica alle tesi sul “contratto sociale” di Jean Jacques Rousseau, egli dimostra che alla base di tutto c’è quel principio divino da cui l’Uomo si è distaccato e cui deve tendere nella sua vita, allo scopo di reintegrarsi con Lui e in Lui. Il contratto sociale così come Rousseau l’intende non può, per il Filosofo Incognito, sussistere. Esso infatti manca della forza vitale che solo il ricordo della Grazia perduta può infondere. È assurdo pensare che la società sia nata da uomini selvaggi e animaleschi, solitari nelle loro abitudini di vita e soggetti a ogni legge della natura, allo scopo di avere maggiori vantaggi pratici rinunciando a parte della propria libertà. Un simile pensiero è puramente astratto, privo di fondamento nella realtà. Inoltre è lo spirito a guidare l’uomo verso il progresso sociale e verso il bene e non certo l’utilità materiale. E l’approccio materialista di molti suoi contemporanei è aspramente criticato e visto come frutto della degenerazione dell’essere umano dal suo stato naturale di uomo-spirito:

Senza preoccuparsi di sapere se l’uomo sonnecchia o meno in un abisso, essi hanno scambiato le agitazioni convulsive della sua situazione dolorosa per i movimenti naturali di un corpo sano che gode liberamente di tutti i principi della sua vita: ed è con questi elementi caduchi e tarati che hanno voluto formare l’associazione umana e costituire l’ordine politico.[1]

Il governo di un paese non può essere quindi materialista e improntato al banale e basso interesse materiale se si vuole che esso agisca secondo giustizia e per il bene degli uomini. Il buon governo non potrà che essere teocratico. Non si fraintenda, però, questo termine che il Saint-Martin, come si evince dalla lettura, non intende come forma di governo basata su una particolare religione e sulle sue leggi morali specifiche. Allo stesso modo egli non potrebbe essere più lontano dal volere un regime ierocratico (un “governo dei preti”). Per governo teocratico, egli intende un governo guidato dai veri principi spirituali, un governo di uomini che tendano alla reintegrazione dell’Uomo nel suo stato iniziale e che traggano quindi l’ispirazione delle proprie azioni e delle proprie idee dal Principio Primo stesso. Solo in questo modo il governo potrà davvero tendere al bene e promulgare leggi dal valore universale.

Quale che sia la nostra opinione politica, il trattato ha degli spunti di riflessione di grande attualità. L’attacco al becero materialismo (quello dell’egoismo e dell’avidità, non quello filosofico) è sicuramente valido in un momento storico come il nostro che vede regnare solamente l’iniquo interesse economico. Su molti punti il Filosofo Incognito si rivela ben più moderno e progredito di molti pensatori del XXI secolo che si spacciano per tali.

Egli si scaglia contro la pena di morte, ritenendo che l’uomo non abbia il diritto di togliere la vita, visto che non può ridarla. Per l’autore la pena, infatti, deve essere data in funzione di una riabilitazione del criminale che tramite la pena stessa dovrebbe prender coscienza del suo errore e reinserirsi nel consesso della gente onesta. La pena di morte vanifica tutto ciò, rendendo impossibile ogni riabilitazione e dimostrandosi, di conseguenza, inutile:

Sicuramente una delle regole più incontestabili della giustizia sarebbe che le pene afflittive che i legislatori umani si permettono di infliggere non portassero via per sempre al criminale, ciò che gli potrebbe essere reso se questi venisse a profittare della punizione e rientrasse quindi nelle vie dell’osservanza delle leggi.

[ … ] Non avendo il potere di rendergli la vita essi dovrebbero sentire che non hanno neppure il potere di togliergliela, perché questa pena non è più una punizione ma una distruzione che diviene inutile per il colpevole e che non è neppure di alcun profitto per i malvagi che ne sono testimoni.[2]

Interessante a tal proposito l’accenno ad antiche pene capitali inflitte per ispirazione dello Spirito. L’autore si riferisce, con tutta probabilità, ai tanti uomini uccisi per ordine di Dio nelle Sacre Scritture. Per l’autore si tratta di casi diversi da quelli del criminale condannato da un pubblico tribunale. Dio infatti può dare la salvezza e riportare sulla retta via gli esseri umani anche dopo la morte e per questo è Egli solo a poter condannare a morte. Gli uomini di oggi non sono più come quelli di quei tempi e non odono più la voce di Dio. Pertanto non possono arrogarsi un diritto che non hanno:

Per eseguire questi terribili giudizi la giustizia suprema non impiegava sempre immediatamente i flagelli fisici e le potenze della natura; spesso, per velare la sua azione, confidava il suo diritto alla voce ed alla mano dell’uomo che, allora, si trovava legittimamente ed efficacemente dotato di quello che noi chiamiamo diritto di vita e di morte sui suoi simili; diritto che, essendo esercitato solo per ordine da parte di quelle luci che non sono affatto umane, si trova al riparo da qualsiasi rimprovero o critica.

Ma i legislatori umani non hanno trasmesso che le ombre di queste alte verità nella loro giustizia composita ed hanno trasferito quel diritto divino da tutte queste autorità superiori al loro solo potere cieco ed alla loro autorità capricciosa; e con essa hanno deciso, condannato ed ucciso, come se fossero investiti dell’autorità divina, arrivando a sostenere che non erano loro ma la legge a versare il sangue del colpevole.[3]

Tesi che comporta la non-eternità della pena per l’essere umano che muoia “nel peccato”:

[ … ] e siccome le leggi divine sono vive ed esse non possono, dando la morte, separarsi dalla vita che le accompagna, noi non crediamo di sbagliare sostenendo che il colpevole, che paghi il fio dei crimini della sua vita animale, e che entri quindi in una situazione più penosa di quella che ha lasciato, non possa anche, entrandovi con rassegnazione e sperando nella sua fine, godere infine delle vivificanti compensazioni divine.[4]

Tesi che condivido pienamente, non potendo io immaginare un Dio tanto crudele da dare una punizione eterna e infinita per una qualsivoglia colpa finita e temporanea.

Altro punto di grandissimo interesse è quello dei “nomi”, dove con tale termine si indicano quelle forme (nomi, appunto) che divengono idoli nella società, idoli sia di natura religiosa che politica. Molti sono, infatti, i miti che l’uomo crea e in nome dei quali è disposto a sacrificare la dignità, la sicurezza e perfino la vita dei propri simili. Alcuni di essi erano in origine cose buone, derivanti dalla Sorgente Prima, ma nella sua degenerazione l’uomo ha perso la conoscenza della vera natura di queste cose conservandone il solo nome ed ergendolo a oggetto della sua adorazione:

Disgraziatamente le fonti del pensiero malvagio hanno talmente prevalso su quello che restava all’uomo della sorgente pura, che noi non conosciamo alcuna associazione il cui nucleo o centro non sia debole o viziato; e più disgraziatamente ancora, quando i pensieri buoni si sono ritirati dalla casa dell’uomo, egli ne ha conservato i nomi, che però ha scambiato quasi sempre con le medesime cose che avrebbero dovuto rappresentare.

[ … ] Noi biasimiamo molto le nazioni selvagge che immolano vittime umane ai loro idoli: noi biasimiamo gli ebrei che hanno fatto altrettanto con i loro, dopo i falsi esempi che avevano imparato dai loro vicini. Presso questi popoli, indipendentemente dal nome dei loro idoli materiali, vi sono anche nomi di devozione, di patriottismo, di bisogni espiatori mal compresi, di vendetta etc. ed è a questi nomi o all’idea falsa che racchiudono che queste nazioni sacrificano degli uomini, ben più che ai loro idoli materiali, che non possono loro richiedere delle vittime.

Bene! Noi che ci crediamo così fortemente al di sopra degli altri popoli in questo campo, vediamo quante vittime umane abbiamo offerto durante la rivoluzione alle parole di nazione, sicurezza dello stato ecc.[5]

Come non vedere l’attualità di questa denuncia in un mondo dominato unicamente dal denaro e dall’economia? Un mondo in cui si sacrificano migliaia di vite ai novelli Moloc della “crescita economica” e del “mercato” non può che essere in preda di questa specie di malefica idolatria di cui parla il testo.

Il trattato non giunge a definire una forma ideale di governo. E forse sarebbe stato un controsenso farlo, visto che ogni forma non è che un’illusione dettata da questo mondo degenerato. Nonostante ciò, il Saint-Martin fa alcune considerazioni sulle nascenti idee repubblicane. In particolare egli si dimostra piuttosto scettico sullo strumento delle elezioni. Per l’autore esse possono valere nel ristretto ambito dell’amministrazione di cose pratiche, basse e materiali. Ma essendo l’unico governo buono e degno originato direttamente dall’alto, le elezioni non possono essere uno strumento valido in generale[6]. Anche in ciò egli si distacca dal pensiero politico moderno che nasceva in quei momenti. Egli non vedeva un governo eletto come rappresentante della “volontà generale”. Mentre Rousseau definiva la “volontà generale” come l’insieme delle singole volontà delle persone del popolo, e quindi le elezioni come espressione di questa stessa volontà, il Saint Martin negava che nel popolo potesse risiedere una volontà generale. Le persone hanno, infatti, idee diverse, diverse ambizioni e desideri che si riverberano nel disordine dell’umanità. Gli eletti, ammesso che si dedicassero alla soddisfazione dei bisogni degli elettori, non potrebbero comunque agire nell’interesse di tutti, ma solo nell’interesse di una delle parti. La volontà generale, dunque, per l’autore è da identificare con la volontà del Principio Primo a cui tutti gli uomini tendono e che tutti gli uomini desiderano, pur inconsciamente.

L’edizione della casa editrice Jouvence aggiunge al trattato del Filosofo Incognito una breve introduzione del traduttore, Mauro Cerulli, dove si spiega in modo sintetico, ma ben strutturato, il pensiero del Rousseau, dalla critica del quale il Saint-Martin parte nelle sue considerazioni. Inoltre è presente una introduzione storica (che occupa, a dire il vero, più della metà del libro) dal titolo “Louis Claude de Saint-Martin e il Martinismo” curata da Apis, Gran Maestro dell’Ordine Martinista Egizio. Oltre a una disquisizione su ciò che è il Martinismo e una ben documentata storia dei vari Ordini (francesi e italiani in particolare), Apis si spinge in una critica di atteggiamenti, oggi purtroppo assai diffusi, di protagonismo e di ciarlataneria. Sono vari i personaggi che si muovono nel mondo iniziatico e Martinista (nonché massonico) che se ne dimostrano indegni. Vari sono coloro che fanno proselitismo più per ragioni di egocentrismo (o, peggio, per denaro) che per diffondere la Luce e contribuire all’Opera di Reintegrazione. Senza considerare coloro che si danno a pratiche dubbie e incompatibili con la via martinista, personaggi che rischiano di vanificare con la loro malafede o con la loro ridicolaggine il lavoro duro e serio di molti Superiori Incogniti degni di tale titolo. Riporto a tal proposito solo una piccola citazione:

Possiamo solo aggiungere, come nota folkloristica l’esistenza di sedicenti “Gran Maestri” davvero reclutabili nel circo Barnum, tra cui un tale che alterna riti pseudo-martinisti con pratiche vudù (con tanto di galline sgozzate); un secondo personaggio che, dopo aver girato tre o quattro Ordini Martinisti, si è “messo in proprio” costituendo un micro-ordine di cinque o sei persone e che ha recentemente dato alle stampe un libro nel quale, oltre che coprire di improperi varie personalità del Martinismo (vive o morte), se la prende con coloro che concedono i Poteri Iniziatici alle Sorelle in quanto [ … ]: “La donna è nemica naturale dell’uomo poiché il suo compito è quello di rubargli lo sperma” (sic!).

[ … ] Un altro pittoresco “colloquiante con la Chose” invece va in giro spacciandosi per vescovo ortodosso con tanto di abito talare! Poi annoveriamo in tale divertente galleria alcuni “Martinisti” convertiti al culto degli UFO, altri “Martinisti” che si rifanno agli antichi culti iranici, ed infine “last but not least” un picaresco “Gran Jerofante de nojantri” che batte la capitale in lungo ed in largo sostenendo di essere il depositario “dell’Ordine Martinista di Ventura” (sic!), quando da tale ordine egli fu invece cacciato a pedate dal successore diretto del Ventura stesso, ovvero il citato Sebastiano Caracciolo![7]

Parole che non possiamo non condividere su personaggi a cui, pur non citandone l’autore l’identità, pensiamo di poter dare un nome e un cognome.

Concludo invitando i Fratelli Martinisti e non solo a leggere questo libro che può gettare una Luce pura, forte e viva sulla politica e la società di questa nostra buia epoca materialista.

Enrico Proserpio

[1] Louis Claude de Saint-Martin, “Gli illuminati nella società umana”, edizioni Jouvence, 2016, pagina 136.

[2] Louis Claude de Saint-Martin, “Gli illuminati nella società umana”, edizioni Jouvence, 2016, pagine 178 – 179.

[3] Louis Claude de Saint-Martin, “Gli illuminati nella società umana”, edizioni Jouvence, 2016, pagina 180 – 181.

[4] Louis Claude de Saint-Martin, “Gli illuminati nella società umana”, edizioni Jouvence, 2016, pagina 180.

[5] Louis Claude de Saint-Martin, “Gli illuminati nella società umana”, edizioni Jouvence, 2016, pagina 184. Corsivo mio.

[6] Anche ai giorni nostri ci sono pensatori che mettono in dubbio la validità del metodo elettorale e la sua effettiva democraticità. Le ragioni di tale critica sono, parzialmente, simili a quelle del Saint-Martin. A tal proposito consiglio la lettura di “Contro le elezioni” di David van Reybrouck.

[7] Fr::: Apis, “Louis Claude de Saint-Martin e il Martinismo”, pubblicato come introduzione a “Gli illuminati nella società umana” di Louis Claude de Saint-Martin, edizioni Jouvence, 2016, pagini 100 – 101.